‘Plasmato dal fuoco’ con oltre 170 opere racconta per la prima volta l’arte e la storia dei maestri fiorentini del metallo nel ‘600 e ‘700.
In mostra anche la Venere al Bagno del Giambologna, mai esposta finora al
grande pubblico.
Direttore Schmidt: “Così i Medici esportarono il gusto di Firenze in tutta
Europa”
Tutta
l’energia dell’arte barocca imprigionata nel metallo, grazie alla potenza viva
della fiamma: è questo, in sintesi,
il concetto di Plasmato dal fuoco. La scultura in bronzo nella Firenze degli ultimi
Medici, mostra accolta dal 18 settembre 2019 al 12 gennaio 2020 al
Tesoro dei Granduchi, negli spazi al pianterreno di Palazzo Pitti. Le opere
sono oltre 170, con molti prestigiosi prestiti da musei internazionali, quali i
Musei Vaticani, il Louvre, il Victoria and Albert di Londra, l’Hermitage di San
Pietroburgo, il Getty di Los Angeles, la National Gallery of Art di Washington,
la Frick Collection di New York e molti altri. Nelle sei sale al
piano terra della reggia, la narrazione parte da un piccolo nucleo di opere
di Giambologna: dal lavoro di questo fiammingo, eletto artista di corte da
Francesco I de’ Medici, parte la grande stagione della bronzistica fiorentina, culminando
nella seconda metà del ‘600 con artisti celebri anche fuori dal territorio
toscano e nazionale come Giovan Battista Foggini e Massimiliano Soldani Benzi.
L’esposizione, curata dal direttore degli Uffizi Eike Schmidt insieme a
Sandro Bellesi e Riccardo Gennaioli, offre per la prima volta un
racconto completo ed esaustivo della scultura in bronzo nel capoluogo toscano,
che conobbe il suo apice nel tardo Seicento e primo Settecento, al tempo degli
ultimi granduchi di casa Medici. La scultura in bronzo, insieme al commesso in
pietre dure, diventa moneta corrente per doni diplomatici con le altre corti
europee, materia di scambi di natura tecnica e mercantile, oggetto di
commissioni importanti da parte delle teste coronate e della nobiltà del
continente.
Liuwe Tamminga alla Spinetta ovale di Bartolomeo
Cristofori
Venerdì 21
giugno 2019, ore 20.00
GALLERIA
DELL’ACCADEMIA DI FIRENZE
Speciale Festa della Musica:
Liuwe Tamminga alla Spinetta ovale di Bartolomeo
Cristofori
Comunicato
stampa
Venerdì 21
giugno 2019, ore 20.00
La Galleria
dell’Accademia di Firenze è lieta di offrire, in occasione della 25ma Festa della Musica, un evento
musicale straordinario: venerdì 21 giugno, alle ore 20.00, nella magnifica
cornice della Tribuna del David, il celebre organista e clavicembalista di
origini olandesi Liuwe Tamminga eseguirà arie, sonate e brani di compositori a cavallo
fra XVI e XVIII secolo sulla riproduzione della spinetta ovale di Bartolomeo
Cristofori.
La partecipazione all’evento è gratuita,
fino ad esaurimento dei posti disponibili.
La Spinetta
ovale in legno di palissandro e cipresso, avorio, costruita nel 1690, è
il più antico strumento documentato fra quelli realizzati per la collezione del
Gran Principe Ferdinando de’ Medici da Bartolomeo
Cristofori (Padova 1655 – Firenze 1732) cembalista e liutaio fra i maggiori
del suo tempo, celebre per l’invenzione del pianoforte. Lo strumento deve la
sua eccezionalità e rarità anche al fatto di non aver subito alcuna sostanziale
trasformazione nel corso della sua storia, costituendo quindi una straordinaria
fonte di informazione sul costruttore. Lo strumento, identificato nel 2000 da
Gabriele Rossi Rognoni fra gli oggetti dell’eredità Bardini in Palazzo Mozzi a
Firenze, fu trasferito in deposito alla Galleria dell’Accademia dove è esposto
presso il Dipartimento degli Strumenti Musicali. Nel 2013 è stato oggetto di un
approfondito intervento di pulitura e consolidamento, a esclusivo scopo
conservativo, operato da KerstinSchwarz. Nel 2003 è stata realizzata da KerstinSchwarz
e Tony Chinneryuna copia esatta dello strumento, usata per speciali interpretazioni musicali, come accadrà per l’evento del 21
giugno.
Liuwe Tamminga è considerato uno dei massimi esperti del repertorio organistico italiano del Cinque e Seicento, con intensa attività concertistica in tutta Europa, negli Stati Uniti, in America Latina, Israele e Giappone e una ampia discografia pubblicata. È titolare degli organi storici della Basilica di S. Petronio a Bologna, dove suona i due magnifici strumenti di Lorenzo da Prato (1471-75) e Baldassarre Malamini (1596). Ha inciso numerosi CD, dedicati, fra gli altri, all’opera completa di Marc’AntonioCavazzoni, alle Fantasie di Frescobaldi e a “Mozart on ItalianOrgans”, a “Fiorenzo Maschera”, agli organi storici delle isole Canarie ed a “Giacomo Puccini”, tutti premiati con prestigiosi riconoscimenti. Nel maggio 2017 ha suonato a Lucca in prima mondiale i brani per organo ritrovati di Giacomo Puccini, che sono anche stati registrati: “Giacomo Puccini, Organ Works World Premiere Recording”. Ha curato alcuni edizioni di musica organistica, tra cui i ricercari della Musica Nova (1540), opere per tastiera di Giovanni de Macque, Marc’Antonio Cavazzoni e Pierluigi di Palestrina, i ricercari di Jacques Buus e Musiche per due organi di maestri italiani intorno 1600. Dal 2010 è curatore del museo degli strumenti musicali “San Colombano-collezione Tagliavini” a Bologna.
Nonostante amasse definirsi “omo sanza lettere”, Leonardo non si limitò a trarre insegnamento dall’indagine diretta dei fenomeni di natura. Dedicò non minore attenzione al dialogo con gli autori, antichi e moderni. Negli anni della maturità era divenuto non solo un appassionato lettore, ma anche un insaziabile cacciatore di libri e manoscritti,che concepiva come mappe sulle quali erano segnati sentieri di conoscenza dalla cui esplorazione trarre ispirazione per tracciare percorsi nuovi e meglio illuminati. Alla fine della propria esistenza, arriverà a possedere quasi duecento opere, una biblioteca straordinaria per un ingegnere-artista del Quattrocento.E di questi volumi registrò nei propri manoscritti puntuali inventari per avere certezza di rientrarne integralmente in possesso al momento di ritirarli dai depositi nei quali li aveva lasciati prima di intraprendere uno dei continui viaggi che scandirono la sua esperienza di vita.
Della biblioteca di Leonardo non rimane purtroppo traccia. Un solo esemplare è sopravvissuto alla sua dispersione post mortem: il Trattato di architettura e macchine di Francesco di Giorgio Martini, lo splendido manoscritto pergamenaceo conservato nella Biblioteca Laurenziana di Firenze, sul quale Leonardo ha vergato dodici postille autografe.
Questa mostra propone, per la prima volta, la ricostruzione integrale della biblioteca di Leonardo, delineandola sua progressiva formazione a partire dal precoce incontro con il mondo dei libri e della parola scritta (Dante, Ovidio), attraverso la lettura delle opere di autori contemporanei affermati (Alberti, Toscanelli, Pacioli), fino alla fascinazione della maturità per i testi classici e medievali di letteratura, di scienza e di architettura (Archimede, Vitruvio, Plinio, Alberto di Sassonia, ecc.).
Nella mostra sono esposti preziosi manoscritti e incunaboli presenti
negli elenchi vergati da Leonardo. Applicazioni multimediali consentono non
solo di sfogliarli, ma anche di individuare i passi dei codici vinciani nei
quali rimangono tracce del loro utilizzo.
Realizzata grazie alla collaborazione di un’équipe internazionale di specialisti, la ricostruzione dell’intera biblioteca di Leonardo sarà contestualmente pubblicata online nella biblioteca digitale del Museo Galileo. E costituirà a lungo una risorsa inestimabile per lo sviluppo degli studi vinciani.
Leonardo e i suoi libri
di Carlo Vecce
Quando
avvenne il primo incontro di Leonardo con i libri? Probabilmente molto presto,
durante l’infanzia e l’adolescenza a Vinci. La sua era una famiglia di notai
fin dagli inizi del Trecento, e i notai erano i depositari di una cultura
scritta che doveva garantire il valore legale di atti pubblici: compravendite
di terreni o immobili, prestiti, matrimoni, testamenti, successioni. Leonardo,
figlio illegittimo del giovane notaio ser Piero (dimorante a Firenze per
l’esercizio della sua professione), fu in realtà educato dal nonno Antonio (non
notaio ma mercante), che ebbe cura di registrare la nascita del nipote
sull’ultimo foglio di un protocollo notarile di suo padre ser Piero di ser
Guido: una pagina che per Antonio era una sorta di Libro di ricordi, perché, a distanza di molti anni, l’aveva
utilizzata per annotare le nascite dei propri figli, Piero (1426), Giuliano
(1428, ma morto poco dopo), Violante (1433) e Francesco (1436):
1452 / Nachue un mio nipote figliuolo di ser Piero mio figliuolo a dì 15 d’aprile in sabato a ore 3 di notte. Ebbe nome Lionardo. Batezollo prete Piero di Bartolomeo da Vinci, Papino di Nanni Banti, Meo di Tonino, Piero di Malvolto, Nanni di Venzo, Arigho di Giovanni Tedescho, monna Lisa di Domenicho di Brettone, monna Antonia di Giuliano, monna Nicholosa del Barna, mona Maria figliuola di Nanni di Venzo, monna Pippa (di Nanni di Venzo) di Previchone[1].
«Per tutta
la sua vita artistica, Carlo Battaglia si è battuto per evitare di essere
considerato un artista d’avanguardia. Ma non è sempre stato creduto, tanto che
per quasi tutti gli anni settanta si è trovato a rappresentare quella tendenza
che oggi si identifica con la “Pittura analitica”, e che allora si chiamava anche
“Nuova Pittura” o “Pittura pittura” […]. Ma sicuramente la sua presenza deve
apparire eterodossa rispetto ai dettami teorici di quella analiticità, e anzi
deve essere vista come una possibilità “altra”[…]».
La
galleria Il Ponte conclude la stagione espositiva – prima
della pausa estiva – con una personale dedicata alla pittura di
Carlo Battaglia presentando quindici grandi opere dal 1969 al 1979.
Il
suo lavoro di questo decennio rappresenta comunque un vertice assoluto
nell’ambito della “Nuova Pittura”, marcando quello che è l’elemento distintivo
degli artisti italiani, che in quegli anni si ritrovano in quest’ambito.
Infatti pur sviluppando ognuno una propria linea, è evidente come il loro
lavoro tragga origine dalla grande tradizione pittorica italiana.
«La sua
rappresentazione non è imitazione: quest’ultimo termine è negativo, il primo
costituisce invece la grande tradizione della pittura […]. In pittura,
rappresentare un mondo… significa creare un mondo con gli strumenti a
disposizione della pittura, non imitarlo: è quella che egli ha definito
“immagine parallela”, vale a dire un equivalente della sensazione, ottenuto
attraverso gli strumenti linguistici e disciplinari che ciascuno di noi si è
scelto per vivere, prima ancora che per comunicare[…]. Tutta la sua pittura è
sempre e solo rivolta a creare il mondo in cui si sentiva immerso».
Le
due citazioni sono tratte dal testo di Marco Meneguzzo in Carlo Battaglia.
Catalogo ragionato, a cura di Marco Menguzzo e Simone Pallotta, Silvana
Editoriale, Milano 2014
Carlo Battaglia nasce nell’isola de La Maddalena nel 1933, trascorre l’infanzia a Genova e poi si trasferisce a Roma; solo per pochi anni da adolescente (1943-1947) vive nella sua amata isola, anni che però lasceranno indelebili tracce nella sua memoria visiva. Dopo gli studi classici, frequenta l’Accademia di Belle Arti, indirizzo scenografia, con interessi verso il teatro e il cinema, ma vi scopre la pittura e grazie a Toti Scialoja si innamora di quella americana (particolarmente Jackson Pollock cui dedica la sua tesi). Si forma copiando i Maestri, soprattutto Matisse e inizia a viaggiare, Kassel, Parigi (dove vive nel 1962 per una borsa di studio), Londra, New York. La prima sua personale si tiene nel 1964 a La Salita di Roma; nel 1966 espone nel Salone Annunciata di Carlo Grossetti a Milano, al quale sarà sempre riconoscente per averlo preso sotto le ali della sua galleria d’avanguardia. L’anno seguente, in un soggiorno oltre oceano – New York, dove lavora in uno studio a Canal Street – stringe amicizia con artisti quali Reinhardt, Motherwell e soprattutto Mark Rothko, che nel 1965 a Roma, era stato per due mesi ospite suo e di sua moglie, Carla Panicali – collezionista, mercante, fondatrice della galleria L’Isola a Roma – che sposerà nel 1972. Lavora ai motivi dell’”ambiguità” e dell’”illusione” del mondo visibile con una serie di quadri Misterioso, Vertiginoso, Visionario,che trattano i rapporti di pieno e vuoto fra i grattacieli e il cielo, il gioco dei riflessi sulle pareti di cristallo degli edifici. Nel 1970 espone le Maree (tema che gli sarà assai caro per tutta la sua vita) alla XXXV Biennale di Venezia in una sala personale. Dagli anni Settanta partecipa a tutte le mostre più importanti in Italia e in Europa della “Nuova Pittura” o “Pittura Analitica”. Nel 1973 espone allo Studio La Città di Verona (Iononrappresento-nullaiodipingo); nel 1974 a Palazzo Grassi a Venezia tiene una grande antologica, come a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, e all’Hirshorn Museum a Washington; nel 1975 partecipa alla mostra Pittura analitica, Galleria La Bertesca a Dusseldorf, con A proposito della pittura allo Studio Soldano di Milano, e all’I.C.C. ad Anversa; nel 1976 espone da Daniel Templon a Parigi (Peinture) e nel 1977 al Boymans Museum di Rotterdam; nel 1978 alla Kunsthalle di Dusseldorf, alla XXXIX Biennale di Venezia e nel 1982 alla Hayward Gallery di Londra. Nel 1980 è invitato con una sala personale alla XL Biennale di Venezia; espone nuovamente a Milano, allo Studio Grossetti. L’anno seguente è presentato a Roma dalla galleria L’Isola (che lo vedrà protagonista fino a tutti gli anni Novanta). Da questo momento ricerca l’isolamento, tra Roma, New York e la Maddalena dove rimane definitivamente. Nella seconda metà degli anni Ottanta tiene esposizioni da Marconi (Milano, 1986); Deson-Saunders (Chicago, 1989); Rossi & Rossi (Londra, 2001); Villa Vogel (Firenze, 2003, in collaborazione con il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci – Prato); Jason McCoy (New York, 2004-2005). Torna a lavorare con la tempera all’uovo come gli antichi e le sue opere pur apparendo una rappresentazione del mondo visibile, trattando i temi del mare, della pioggia, della grandine, creano un’”immagine parallela”. La pittura come metafora del paesaggio, il paesaggio come metafora della pittura. A tre anni dalla morte – che avviene nel 2005 – la moglie Carla Panicali, avvia il lavoro di catalogazione della sua opera, prima della sua stessa morte nel 2012, sempre alla Maddalena.
Firenze
possiede una miriade di spazi in penombra, attraversati da secoli di memorie
sommerse, abitati da personaggi di cui merita portare alla luce il loro ricordo
perché resti memoria di quello che hanno compiuto a favore del prossimo.
Ritornare un po’ indietro nel tempo ci permette di poter raccontare di coloro
che , anche se poco conosciuti, hanno contribuito a cambiare un po’ la storia
ed a renderla migliore.
Era il 7 maggio 1937 quando Leto Isidoro Maria Casini, ordinato sacerdote nel 1928, fu nominato parrocco della Chiesa di San Pietro a Varlungo che all’epoca contava circa duemila abitanti. Nell’ ottobre del 1943 fu incaricato dall’ arcivescovo Elia Dalla Costa di prestare assistenza agli ebrei, vittime delle leggi razziali, dichiarati nemici della patria e come tali, condannati allo sterminio.
Dal 1933 le cose erano molto cambiate. Mentre in quell’ anno Benito Mussolini in una intervista, concessa allo storico austriaco Ludwig, aveva lodato ripetutamente gli ebrei, qualificandoli come cittadini esemplari, tanto da affidare loro incarichi di alta responsabilità nella scuola , nell’esercito e nelle finanze ed anche nelle accademie, da lì a poco seguì il voltafaccia, a seguito delle leggi razziali, emanate da Hitler a partire dal 1935, e del patto d’ Acciaio del 1939 tra Regno d’ Italia e Germania nazista. In pochi anni da cittadini esemplari gli ebrei divennero indesiderabili, privati di qualsiasi posto di responsabilità ed in ultimo dichiarati ostili e nemici della patria. Ci fu tra di loro chi riuscì ad eclissarsi, ma tanti furono gli ebrei che, a partire dall’ otto settembre del 1943, a seguito della dichiarazione dell’ armistizio dell’ Italia, si riversarono in massa nel territorio italiano, sicuri che a breve sarebbe stato occupato dalle forze alleate, lontani dal pensare che il paese sarebbe finito, come poi avvenne, sotto il controllo delle truppe tedesche.
Molti furono
gli ebrei che giunsero a Firenze da paesi stranieri, non conoscendo nessuno, né sapendo a chi
rivolgersi per chiedere aiuto. La Chiesa fiorentina, guidata da Elia Dalla
Costa, si prodigò a favore delle minoranze ebree presenti nella città. Fu
proprio il cardinale che nell’ ottobre del 1943 convocò Leto Casini, allora
sacerdote della parrocchia S. Pietro a Varlungo, invitandolo espressamente a
far parte di un comitato per la ricerca di alloggi, di viveri e di carte d’
identità per mettere in salvo tutti i perseguitati ebrei presenti in città. Per
fortuna la solidarietà e la carità non mancarono e molti enti sociali ed
associazioni religiose offrirono il loro aiuto. Come informa Louis Goldman nel
suo libro “Amici per la vita” un gruppo di donne ebree fu accolto a Firenze
nella zona di Varlungo, nei pressi della parrocchia di San Pietro, nel monastero vallombrosano dello Spirito Santo ,
edificio che nei secoli precedenti tutti avevano conosciuto come “villa la
Funga o il Pratello” e che oggi è sede di un pensionato universitario.
Leto Casini
era riuscito ad ottenere l’ appoggio
spontaneo della badessa che, spinta dalla gravità degli eventi, aveva accettato
di accogliere il gruppo di donne ebree, decisione che neppure il cardinale Dalla
Costa avrebbe potuto imporle. Fu una
scelta sofferta ed indubbiamente
difficile per lei, in quanto consapevole di infrangere le regole immutabili
della clausura e di dover affrontare grossi rischi per sé e per le sessanta
consorelle. Nascondere ebrei era considerato dai tedeschi un atto ostile,
paragonabile al tradimento e punito spesso con la perdita della vita. Alla fine
di ottobre del 1943 dodici donne ebree
furono ospitate nel monastero, tra cui una ragazza di tredici anni che aveva
assistito impotente qualche mese prima alla cattura di sua madre e di sua
sorella, trascinate via dai tedeschi. Occuparono stanze austere ma impeccabili in un’ ala del monastero rigorosamente
non riservata alla clausura. Il 6
novembre del 1943 ci furono numerose operazioni da parte dei tedeschi di razzie
e rastrellamenti contro gli ebrei. Il
monastero di Varlungo sembrò non essere più un luogo sicuro, ma Leto Casini
ritenne opportuno lasciare il gruppo di donne in quella sede, non trovando
altro luogo migliore. Pensarono opportuno nasconderle in una grotta sotterranea
che si trovava fuori in giardino dove all’ estremità, vicino al muro che
circondava la proprietà, c’ erano delle serre ed una costruzione con una
riserva d’ acqua sul tetto; dietro a questa costruzione il terreno degradava e
portava sottoterra ad una porta un po’ fatiscente oltre la quale, scendendo
alcuni gradini, si apriva una specie di cavità con delle volte, provvista
di sedili di pietra allineati tutti
intorno. Era usata come deposito di vasi da fiore e di arnesi da giardino.
Tutto venne rimosso , furono messi all’
esterno cumuli di paglia e letame
ammucchiati per camuffare. Le donne ebree lasciarono così le loro stanze
al monastero ed andarono letteralmente sotto terra. Le suore misero una fila di
piante davanti alla porta, che fu chiusa dall’ interno affinché nessuno
sospettasse che degli esseri umani vivessero lì, in una grotta. Dodici donne ed altri bambini,
che si erano aggiunti, erano stipati in uno spazio di tre metri per sei, appena
sufficientemente alto per stare in piedi. Non c’era sole che potesse
illuminarli e scaldarli, non avevano acqua, né luce, non potevano uscire per
paura di essere visti da abitanti negli stabili vicini. Stavano seduti in
quelle panche di pietra e parlavano a sussurri per paura di essere uditi all’
esterno. Dormivano a turno sdraiati in questi sedili. Il freddo era terribile e
l’ umidità raggiungeva indici molto alti. Erano assistiti anche dal trevigiano
don Giovanni Simioni che viveva presso
il convento in una casetta indipendente
e dalle suore che provvedevano a
porgere loro un po’ di minestra, dei panini , cipolle ed un po’ di caffè per la
mattina, tanto erano allora scarsi gli
alimenti. In quel periodo la carta annonaria dava diritto a soli trentatre
grammi di grano a persona e c’ era chi lo macinava con macinino da caffè e con
quel poco di farina faceva una “farinatina” integrale. Per fortuna, grazie all’
aiuto di Leto Casini e di alcuni agricoltori e
giovani donne di Varlungo, fu messo in funzione un mulino ad acqua che
si trovava sopra Rovezzano. Lì veniva portato il grano raccolto nelle campagne
intorno a Varlungo e da lì la farina veniva trasportata al forno del Bianchi,
da cui uscivano filoni di pane profumato. Tutto ciò rese possibile, almeno per
i primi tempi, la distribuzione di centocinquanta grammi di pane a testa tra la
popolazione di Varlungo . Non erano molti, ma sempre meglio di prima. Le
difficoltà quotidiane da affrontare erano tante ed i pericoli sempre in
agguato, ma le suore del Monastero dello Spirito Santo di Varlungo seppero al
meglio superarli ed affrontarli. Nei mesi di giugno, luglio ed agosto
del 1944 la situazione nella zona di Varlungo divenne di gran lunga più
difficile. I tedeschi provenienti
dal Valdarno Superiore attraversavano i
borghi di Rovezzano e di Varlungo in
lunghe colonne di barrocci trainati da cavalli , di carri agricoli tirati da
buoi, carichi di tutte le razzie fatte in case, ville e negozi lungo il loro
percorso. Per non passare attraverso la città deviavano da Varlungo, prendendo
via del Gignoro e via della Torre per poi dirigersi verso Ponte a Mensola e
salire a Fiesole da dove, attraverso il passo del Giogo tentavano di varcare l’
Appennino per ritornare in Germania. Il
passaggio di queste colonne creava a volte reazioni tra i civili con
conseguenti rappresaglie da parte dei tedeschi . Nonostante tutto questo le
suore del Monastero dello Spirito Santo dimostrarono un grande e profondo
spirito di solidarietà e di amore per il prossimo, incuranti del pericolo e prodigandosi
per mantenere in vita queste donne e bambini che in altro modo avrebbero
corso il rischio di essere sterminati e che, invece, grazie al loro aiuto riusciranno a ritornare
alla fine della guerra nei loro paesi di origine ed a ricongiungersi con i loro
familiari rimasti in vita.
Ma chi erano
le monache del Monastero dello Spirito Santo?
Era un
ordine monastico devoto di Sant’ Umiltà. L’ ordine risaliva a Rosanese Regusanti, una nobildonna nata a
Faenza nel 1226, anno in cui morì S. Francesco d’ Assisi, ed ancora oggi
venerata con il nome di Sant’ Umiltà. A
Firenze possiamo ammirare all’ interno del museo di San Salvi una sua raffigurazione
della scuola fiorentina della prima metà del XVI secolo, e la chiesa San
Michele a San Salvi conserva una statua marmorea, che la rappresenta,
attribuita ad Andrea di Cione o Orcagna. Nella Galleria degli Uffizi di Firenze è conservata un’ opera,
composta di varie parti, un polittico
del senese Pietro Lorenzetti che la raffigura al centro con l’ abito dell’ ordine , un libro ed una foglia
di palma, simbolo di gloria, con la testa coperta da una pelle di capra,
emblema di umiltà ed accompagnata da una serie di storie circostanti con
funzione didascalica, che narrano le vicende della santa dal momento in cui, ancora
laica, decise di vestire l’ abito monacale, ai miracoli compiuti nel cenobio a
Faenza, al suo viaggio a Firenze, dove nel 1282 fondò il monastero di San
Giovanni Gualberto, allora fuori della cerchia muraria cittadina, fino alla sua
morte ed alla cerimonia celebrata dal vescovo.
La giovane Rosanese Regusanti dopo il legame matrimoniale con Ugolotto
Caccianemici e dopo la morte prematura dei due figli, entrò a far parte dell’
ordine delle monache di Santa Perpetua , una comunità cluniacense della città
di Faenza, dove ricevette il nome di “Umiltà”. Durante il suo eremitaggio
si dedicò per molti anni alla preghiera
ed alla contemplazione mistica sino a che fondò a Faenza una comunità monastica
detta “La Malta”, cioè il fango, in quanto sorgeva fuori delle mura della città
in un luogo ancora paludoso. Era entrata a contatto con la spiritualità
vallombrosana del fiorentino Giovanni
Gualberto che, lottando contro l’ immoralità e le ingiustizie del suo tempo,
aveva cercato di unire i messaggi dei
Vangeli con la regola benedettina dell’ “Ora et labora”. E così anche Umiltà insieme alle donne aderenti all’
ordine conciliò la penitenza e la vita
monastica con l’ assistenza ai poveri ed
a tutti i bisognosi di aiuto senza alcuna distinzione. Gli stessi principi e
regole metterà in pratica quando nel 1281, per espressa richiesta da parte
delle autorità religiose, all’ età di 55 anni fonderà a Firenze, in una città
allora scossa da lotte interne, un monastero per accogliere ed assistere
giovani fiorentine . Il monastero fu costruito vicino all’ allora ponte sul
Mugnone, nel popolo di San Lorenzo, presso quella che poi sarà chiamata “ Porta
a Faenza”, proprio dal nome del
Monastero delle Donne della beata Umiltà di Faenza. La pala di Pietro Lorenzetti , esposta oggi alla
Galleria degli Uffizi, la raffigura china sul greto del Mugnone durante l’
azione simbolica di raccogliere “pillore” da costruzione e mentre compie i
primi miracoli. Accanto al monastero sorse
poi anche la chiesa, consacrata nel 1297,
dove il corpo di Umiltà venne conservato dopo la sua morte, avvenuta il 22
maggio 1310.
Oggi non
rimane alcuna traccia né della chiesa né del monastero. Tutto fu distrutto per
far posto alla Fortezza da Basso, costruita tra il 1534 ed il 1537 e dentro la
quale venne incorporata l’ antica Porta a Faenza, di cui ancora oggi rimane il
tracciato. Abbandonato il monastero, per le monache di Faenza iniziò un lungo
pellegrinaggio : il gonfaloniere Raffaello di Girolami assegnò loro il
monastero di Sant’ Antonio di Vienna, che sorgeva dove oggi si trova il palazzo
dei Congressi; dopo qualche anno si trasferirono nel monastero di Santa Caterina d’ Alessandria,
detto anche di Santa Caterina al Mugnone
o degli Abbandonati, poi in quello di S. Antonio. A partire dal 14 agosto 1534,
per volontà del papa Clemente VII,
furono nel convento vallombrosano, che
era stato fondato nell’ XI secolo da San
Giovanni Gualberto, alla cui
spiritualità Umiltà si era sempre ispirata, e che sorgeva accanto all’ antica
chiesa di San Salvi. Nel 1817, in seguito ai grandi rivolgimenti politici, determinati dalla rivoluzione francese , che
ebbero tra le tante conseguenze anche la
soppressione degli ordini monastici e l’ incameramento da parte dello Stato
delle loro proprietà, il convento di San Salvi passò al Granducato di Toscana .
Il Cenacolo diventò sede di un museo che raccolse intorno al celebre affresco di Andrea del Sarto opere d’ arte provenienti in gran parte
dalle chiese e dai monasteri soppressi della città di Firenze e del suo
territorio.
Le
monache si ritirarono nel monastero
posto su Costa S. Giorgio, nell’ antico convento dei frati agostiniani di Santo
Spirito, oggi sede della caserma di S.
Giorgio e della scuola militare, dove restarono sino al 1866, vale a dire sino
alla soppressione decisa dal governo italiano.
Nel 1872 la comunità delle Suore vallombrosane benedettine dello Spirito
Santo, dette anche Donne di Faenza, fu trasferita a Varlungo, portando con sé
il corpo di Sant’ Umiltà, e dove lì
accolsero nel 1943 quel gruppo di donne e bambini ebrei, salvandoli dai campi
di sterminio. A Varlungo rimasero sino al 1974, quando, a causa dei nuovi
insediamenti e del traffico, il luogo non fu più ritenuto adatto ad accogliere
una comunità di clausura e fu trasferito nel Comune di Bagno a Ripoli, sulle
colline fiorentine, in una originaria casa colonica,
detta anche “Il Palagio a Baroncelli”, che è stata ampliata e trasformata in
convento, dove ancora è custodito il corpo
quasi intatto di Sant’ Umiltà e dove ancora oggi la preghiera e l’ assistenza
sono le principali espressioni di questa emerita e non da tutti conosciuta
comunità religiosa, che ogni anno rinnova il secolare culto di Sant’ Umiltà,
facendo celebrare una significativa messa il 22 maggio, giorno della sua morte,
avvenuta nel 1310.
Uffizi Sala del Camino – 25 novembre 2018 – 10 marzo 2019
SI INAUGURA SABATO 24 NOVEMBRE LA MOSTRA CHE CELEBRA LA GIORNATA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
Firenze, 24 novembre 2018
Le Gallerie degli Uffizi presentano la nuova acquisizione di un bozzetto in terracotta per il Ratto di Polissena, gruppo monumentale realizzato in marmo dello scultore Pio Fedi ed esposto nella vicina Loggia della Signoria.
Dante Alighieri lo collocò tra gli assassini nel VII cerchio dell’Inferno(XII, 135) indicandolo semplicemente come Pirro, benché non sia chiaro se si riferisse al figlio di Achille chiamato anche Neottolemo, o al re dell’Epiro del quale però altrove tessé le lodi. È certo invece che Pirro/Neottolemo si erge con la sua spada sguainata nell’imponente gruppo marmoreo del Ratto di Polissena unica opera “moderna” ritenuta degna essere collocata accanto ai capolavori di Benvenuto Cellini e di Giambologna. Continua a leggere →
Tre studi dal vero in terracotta di Vincenzo Gemito
in mostra al Bargello
La Direzione del Museo Nazionale del Bargello ha il piacere di presentare un prestito eccezionale da parte di Intesa Sanpaolo, dalle Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano di Napoli, di sculture di Vincenzo Gemito.
Fino all’8 aprile lo Scugnizzo, lo Studio dal vero (Moretto) e il Fiociniere, terrecotte realizzate dallo scultore napoletano intorno al 1870, saranno esposte nel Salone della Scultura del Cinquecento al Bargello, in un inedito accostamento tra terrecotte cinquecentesche e ottocentesche che offre l’opportunità di rileggere l’opera dello scultore napoletano alla luce delle suggestioni dei grandi maestri del Rinascimento.
Il prestito celebra il centenario della donazione del Pescatoriello in bronzo di Vincenzo Gemito al Museo Nazionale del Bargello da parte di Achille Minozzi nel 1917. Quest’opera è attualmente esposta alla mostra I napoletani a Parigi negli anni dell’Impressionismo (Napoli, Palazzo Zevallos Stigliano, 5 dicembre 2017- 8 aprile 2018).
Sabato 24 febbraio alle ore 12, la dottoressa Paola D’Agostino, Direttore del Museo Nazionale del Bargello, terrà una visita guidata straordinaria dedicata a Gemito e ai tre “studi dal vero” in terracotta.
Nel mese di aprile saranno annunciate visite straordinarie a tema, dedicate allo scultore napoletano.
Giuseppe Chiari, come tutti gli artisti che hanno seguito le esperienze Fluxus, ha spesso utilizzato la fotografia per fissare e testimoniare le sue performances. Fotografie che a partire dagli ormai famosi Gesti sul piano dei primi anni ’70 compongono una sezione della mostra, assieme ad alcune immagini veramente rare come quelle de L’acqua con tre specchi (1979) e le gigantografie scattate al video televisivo dei movimenti sul piano, poi virate in più colori del 1979.
Da questi due nuclei emerge con evidenza come l’uso della fotografia, che in un primo momento rappresenta il mezzo per fermare un avvenimento una sua performance, si trasforma, attraverso l’estrema libertà espressiva di Chiari, in linguaggio di cui l’artista si appropria, sviluppandolo all’interno di un proprio e personale percorso.
Giuseppe Chiari nasce a Firenze nel 1926. Dopo gli studi di ingegneria, nel 1947 inizia la sua attività musicale e nel 1950 inizia a camporre. Nel ’61 con Pietro Grossi fonda l’associazione Vita Musicale Contemporanea. Con Sylvano Bussotti coordina la mostra itinerante Musica e Segno. Dal 1962 entra a far parte del gruppo internazionale e interdisciplinare Fluxus, nato negli USA per promozione di George Maciunas e impostato su comportamenti alternativi e continui sconfinamenti della specialità dei linguaggi.
Nel ’63 viene eseguito a New York il suo lavoro “Teatrino” all’interno di una serie di concerti organizzati da Charlotte Moorman e Nam June Paik. Partecipa in seguito al Gruppo 70 per la parte musicale.
Pubblica il libro “Musica senza contrappunto” nel ’69 e “Senza Titolo” nel ’71. Nel 1970 smette di comporre ed inizia una intensa attività di concerti, performances, conferenze che lo portano, fra l’altro, a Berlino, Londra, Parigi, Vienna, Milano, Venezia, Roma, New York.
La sua attività come artista visivo lo porta ad essere considerato oggi l’artista Fluxus italiano più importante in campo internazionale. Muore a Firenze nel maggio del 2007.
Nel 2010 la galleria, in collaborazione con l’Archivio Giuseppe Chiari, dedica all’artista I sei scalini sono la musica. Giuseppe Chiari e la fotografia.
Giuseppe Chiari, Senza titolo, 1992, tecnica mista su carta intelata Courtesy Collezione privata Firenze e Tornabuoni Arte
PENTACHIARI
CINQUE GALLERIE D’ARTE CELEBRANO SIMULTANEAMENTE L’OPERA DI GIUSEPPE CHIARI
Galleria Santo Ficara, Firenze;
Galleria Frittelli, Firenze;
Galleria Armanda Gori, Prato;
Galleria Il Ponte, Firenze;
Galleria Tornabuoni, Firenze
inaugurazione sabato 2 dicembre, 2017
Nell’ambito delle iniziative promosse in occasione del decennale della scomparsa di Giuseppe Chiari, sabato 2 dicembre 2017, dalle ore 11 alle 23, a Firenze e Prato, avrà luogo la mostra PentaChiari – cinque gallerie d’arte celebrano simultaneamente l’opera di Giuseppe Chiari, a cura di Bruno Corà.
Le Galleria promotrici dell’evento sono: Galleria Santo Ficara, Firenze; Galleria Frittelli, Firenze; Galleria Armanda Gori, Prato; Galleria Il Ponte, Firenze; Galleria Tornabuoni, Firenze. Continua a leggere →