Giorgio Butini ha un “grido” nella sua formazione, un richiamo che lo rende attento ad ogni sensazione, ma di più lo porta nella capacità di saper dialogare con il corpo nella stessa pienezza mostrata nel saper cogliere la mitologia espressiva di una riviviscenza sensitiva. Butini è un artista completo, sceglie la scultura come formazione seguendo studi accademici, acquisisce la giusta preparazione frequentando gli studi di importanti scultori, apprende e ricerca un’elaborata tendenza tecnica ed ha una “curiosa predisposizione” a prevedere forme e spazi a cui dare una sensibile metamorfosi. E’ un artista che sa dominare la materia, senza perdersi in vincoli di stile o di tendenze, ma scegliendo il suo sentire come guida e lasciandosi accompagnare nei caratteri più sublimi della storia dell’arte. Non è un caso che nelle sue opere sia forte il sentimento michelangiolesco, ma è anche vero, se si osservano i suoi schizzi preparatori, che si avverte l’influenza di William Blake, fino ai tratti sinuosi di un Canova, ma anche la fluidità pittorica di un Boldini.
Giorgio Butini è uno scultore dove l’esperienza lo ha portato a dimostrare un carattere e ad operare una scelta fuori dal coro, senza mai dimenticare il suo tempo; infatti, anche prediligendo la scultura come mezzo espressivo, si sa disporre in altre dimensioni artistiche, come la pittura murale, il design, ma di più quella piccola tecnica sculturea preziosa che possiamo definire il “gioiello” e in questo caso, è forte l’influenza di una tradizione fiorentina nell’idea “artigianale-artistica” di Benvenuto Cellini, ma anche tutta la dimostrazione pittorica della così detta “maniera”. Butini si immerge nell’antichità e da questa sceglie quei momenti espressivi che gli possono dare un’apparente assenza di peso, perché in tutte le sue sculture riesce a modulare l’essenza stessa della materia, sia quando progetta monumenti o sculture di una determinata misura, che quando predilige piccoli segni che si trasformano in preziosi cammei. Infatti sono numerosi gli studi preparatori e tante le prove che, con maestria e conoscenza, si vanno a realizzare, ma tutte lasciando aperta questa possibile pulsione alla soggettività emotiva.
Lo scultore Butini sa dove andare a “prelevare” caratteri e linee formanti per le sue creazioni. Nelle sue opere, dove gli si richiede un’attenzione più drammatica, si avvale di tutta l’espressività necessaria, come abbiamo detto è evidentissimo il richiamo al corpus espressivo di Michelangelo, ma anche l’eleganza decorativa di Georges Minne, esponente dell’Art Nouveau e contemporaneamente anche tratti indefiniti di Medardo Rosso o di Auguste Rodin. Mentre, se lo si invita ad accogliere espressioni più formali e con un carattere più allegorico-spirituale, l’artista sa prelevare dalla storia forme e simbologie più metafisiche e sensitive, di gusto orientale per trasformarle in un apparato mediatico fatto di riferimenti naturali o chiaramente iconografici. In ogni opera commissionata o scelta, l’artista lascia intravedere il suo carattere formativo, come una vera metamorfosi di conoscenze, quasi l’emblema debitorio verso la cultura greca per poi orientare il tutto nell’energia della psiche: le figure, i corpi che compone plasticamente sono forme teriomorfe a cui l’artista ha dato vita umana, creature viventi, riconoscibili, ma che lasciano immettere la “malinconia” dal gusto “gotico”. Presenze aereo-plastiche che si “dimenano” tra fluidi gassosi o acquatici, per proliferare in suggestive raffigurazioni mitico simboliche.
Giorgio Butini è un
artista conosciuto e molte delle sue sculture e opere sono state realizzate e
installate in ambienti privati e pubblici in Italia e all’estero; basta citare
l’imponente Cristo della nuova chiesa di Calenzano alle porte di Firenze,
correlato dalle 14 stazione della “Via Crucis”, o l’opera
marmorea alla memoria del ciclista Franco Ballerini installato a Firenze, fino
al ciclo polimaterico esposto all’International Art Biennale in Cina e ai
numerosi arredi “pittorici” realizzati per collezioni private e pubbliche. E
molti altri sono gli eventi dove l’opera dell’artista si rende evidente e sa
catturare la giusta espressività contemplativa.
Il carattere, la personalità di Giorgio Butini, non lascia al giudizio
critico l’opzione di catalogare la sua libertà espressiva, l’artista si sente
libero di scegliere ogni manipolazione artistica e di dare ogni giustificazione
personale, perché Butini interpreta i significati attraverso i particolari
della “bellezza” materica, da cui trae i giusti “segni” a cui dare vita.
Nell’occasione dell’anno Leonardesco, Giorgio Butini è al lavoro, progetta e
compie una vera esperienza emblematica, propone un monumento simbolico dove i
caratteri e le espressioni, ma di più i segni della fratellanza e
dell’uguaglianza, si intrecciano tra loro, diventando un ponte allegorico, dove
lo spazio naturale ridiventa essenziale per dimostrare un punto di vista, una
presa di posizione. Il suo monumento, fatto di corpi, volti, sguardi si
intrecciano in un arco teso come un caleidoscopico arcobaleno: una “porta”
esistenziale che diventa un ponte che collega ogni differenza e ogni sponda,
per unire disuguaglianze e esteriorità espressive. Il grande “Arco umano”
assume tutti i caratteri tratti dall’artista dalle espressività artistiche,
dal materiale fisiognomico o dalla drammaticità emotiva di situazioni o di
allegoriche raffigurazioni.
Butini, in questa
grande opera bronzea, individua la continuità della storia umana e sceglie di
collegare l’umana differenza proprio attraverso la connessione formale, fino a
trasformarla in una fusione carnale, dove il carattere esplicativo e gestuale
di stati d’animo, diventano concetto, rivivendo una naturale spiritualità
esistenziale. Un’ opera che ha un carattere itinerante, nella misura in cui si
predispone per essere destinata a luoghi dove il messaggio e la scelta di
appartenenza diventa metodo di riflessione contro le distorsioni delle
digradazioni.
Tutta l’opera scultorea di Giorgio Butini ha lo slancio di un’affermazione e questa scultura ne è la metafora al punto di incarnarle tutte, comprese le caratteristiche espressive che l’artista ha ricercato e sviluppato negli anni. Un progetto che ha nell’intento dell’artista la “remissione dei peccati” al punto di dar vita all’omogeneità dell’esistenza, dove la ricerca, la conoscenza e il dialogo formano l’eterna “bellezza”.
“Una storia affascinante”: al Museo Nazionale del Bargello e Palazzo Strozzi un convegno racconta la storia del trapano in scultura
«A fascinating story»: questo il titolo del convegno che avrà luogo al Museo Nazionale del Bargello (lunedì 20 maggio) e a Palazzo Strozzi (martedì 21 maggio) e che racconterà la lunga storia dell’uso del trapano in scultura, dall’antico Egitto al Novecento.
Organizzato da Paola
D’Agostino (Musei del Bargello) e Lucia Simonato (Scuola Normale Superiore), il
convegno è ispirato ad una intrigante osservazione del grande storico dell’arte
Rudolph Wittkower, il quale ricordava che una storia del trapano deve ancora
essere scritta, ma promette di essere una storia molto affascinante.
Le curatrici hanno voluto coinvolgerestudiosi di rinomata fama internazionale, tra cui Nicholas Penny e Jennifer Montagu, così come giovani promettenti ricercatori, per affrontare i numerosi aspetti e lo sviluppo dell’uso del trapano non solo nella scultura marmorea, ma anche nella produzione fittile, nell’intaglio ligneo e nella glittica, offrendo, grazie a ben 18 interventi distribuiti nelle due giornate, una panoramica quanto mai estesa ed aggiornata sull’argomento.
L’incontro
scientifico indagherà pertanto la storia di questo strumento nei suoi snodi tecnici fondamentali, mostrando
come gli artisti hanno reagito e hanno adattato di volta in volta le proprie
scelte e il proprio stile alle possibilità offerte da una simile risorsa. Gli
interventi degli studiosi non mancheranno naturalmente di far risaltare il
valore e l’importanza del contributo di alcuni indiscussi protagonisti e veri “virtuosi” del trapano in scultura,
quali Giovanni Pisano, Gianlorenzo Bernini, Antonio Canova e Adolfo Wildt.
In particolare, nel
pomeriggio di lunedì 21 maggio, la sessione ospitata presso il Museo Nazionale
del Bargello si concluderà con una close up section, un momento di
osservazione ravvicinata di alcune opere particolarmente significative presenti
nelle rinomate collezioni di scultura del museo, offrendo la possibilità di
verificare “di prima mano” i caratteri e i problemi interpretativi suscitati
dallo studio delle opere da questo inedito punto di vista.
«Per tutta
la sua vita artistica, Carlo Battaglia si è battuto per evitare di essere
considerato un artista d’avanguardia. Ma non è sempre stato creduto, tanto che
per quasi tutti gli anni settanta si è trovato a rappresentare quella tendenza
che oggi si identifica con la “Pittura analitica”, e che allora si chiamava anche
“Nuova Pittura” o “Pittura pittura” […]. Ma sicuramente la sua presenza deve
apparire eterodossa rispetto ai dettami teorici di quella analiticità, e anzi
deve essere vista come una possibilità “altra”[…]».
La
galleria Il Ponte conclude la stagione espositiva – prima
della pausa estiva – con una personale dedicata alla pittura di
Carlo Battaglia presentando quindici grandi opere dal 1969 al 1979.
Il
suo lavoro di questo decennio rappresenta comunque un vertice assoluto
nell’ambito della “Nuova Pittura”, marcando quello che è l’elemento distintivo
degli artisti italiani, che in quegli anni si ritrovano in quest’ambito.
Infatti pur sviluppando ognuno una propria linea, è evidente come il loro
lavoro tragga origine dalla grande tradizione pittorica italiana.
«La sua
rappresentazione non è imitazione: quest’ultimo termine è negativo, il primo
costituisce invece la grande tradizione della pittura […]. In pittura,
rappresentare un mondo… significa creare un mondo con gli strumenti a
disposizione della pittura, non imitarlo: è quella che egli ha definito
“immagine parallela”, vale a dire un equivalente della sensazione, ottenuto
attraverso gli strumenti linguistici e disciplinari che ciascuno di noi si è
scelto per vivere, prima ancora che per comunicare[…]. Tutta la sua pittura è
sempre e solo rivolta a creare il mondo in cui si sentiva immerso».
Le
due citazioni sono tratte dal testo di Marco Meneguzzo in Carlo Battaglia.
Catalogo ragionato, a cura di Marco Menguzzo e Simone Pallotta, Silvana
Editoriale, Milano 2014
Carlo Battaglia nasce nell’isola de La Maddalena nel 1933, trascorre l’infanzia a Genova e poi si trasferisce a Roma; solo per pochi anni da adolescente (1943-1947) vive nella sua amata isola, anni che però lasceranno indelebili tracce nella sua memoria visiva. Dopo gli studi classici, frequenta l’Accademia di Belle Arti, indirizzo scenografia, con interessi verso il teatro e il cinema, ma vi scopre la pittura e grazie a Toti Scialoja si innamora di quella americana (particolarmente Jackson Pollock cui dedica la sua tesi). Si forma copiando i Maestri, soprattutto Matisse e inizia a viaggiare, Kassel, Parigi (dove vive nel 1962 per una borsa di studio), Londra, New York. La prima sua personale si tiene nel 1964 a La Salita di Roma; nel 1966 espone nel Salone Annunciata di Carlo Grossetti a Milano, al quale sarà sempre riconoscente per averlo preso sotto le ali della sua galleria d’avanguardia. L’anno seguente, in un soggiorno oltre oceano – New York, dove lavora in uno studio a Canal Street – stringe amicizia con artisti quali Reinhardt, Motherwell e soprattutto Mark Rothko, che nel 1965 a Roma, era stato per due mesi ospite suo e di sua moglie, Carla Panicali – collezionista, mercante, fondatrice della galleria L’Isola a Roma – che sposerà nel 1972. Lavora ai motivi dell’”ambiguità” e dell’”illusione” del mondo visibile con una serie di quadri Misterioso, Vertiginoso, Visionario,che trattano i rapporti di pieno e vuoto fra i grattacieli e il cielo, il gioco dei riflessi sulle pareti di cristallo degli edifici. Nel 1970 espone le Maree (tema che gli sarà assai caro per tutta la sua vita) alla XXXV Biennale di Venezia in una sala personale. Dagli anni Settanta partecipa a tutte le mostre più importanti in Italia e in Europa della “Nuova Pittura” o “Pittura Analitica”. Nel 1973 espone allo Studio La Città di Verona (Iononrappresento-nullaiodipingo); nel 1974 a Palazzo Grassi a Venezia tiene una grande antologica, come a Palazzo dei Diamanti di Ferrara, e all’Hirshorn Museum a Washington; nel 1975 partecipa alla mostra Pittura analitica, Galleria La Bertesca a Dusseldorf, con A proposito della pittura allo Studio Soldano di Milano, e all’I.C.C. ad Anversa; nel 1976 espone da Daniel Templon a Parigi (Peinture) e nel 1977 al Boymans Museum di Rotterdam; nel 1978 alla Kunsthalle di Dusseldorf, alla XXXIX Biennale di Venezia e nel 1982 alla Hayward Gallery di Londra. Nel 1980 è invitato con una sala personale alla XL Biennale di Venezia; espone nuovamente a Milano, allo Studio Grossetti. L’anno seguente è presentato a Roma dalla galleria L’Isola (che lo vedrà protagonista fino a tutti gli anni Novanta). Da questo momento ricerca l’isolamento, tra Roma, New York e la Maddalena dove rimane definitivamente. Nella seconda metà degli anni Ottanta tiene esposizioni da Marconi (Milano, 1986); Deson-Saunders (Chicago, 1989); Rossi & Rossi (Londra, 2001); Villa Vogel (Firenze, 2003, in collaborazione con il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci – Prato); Jason McCoy (New York, 2004-2005). Torna a lavorare con la tempera all’uovo come gli antichi e le sue opere pur apparendo una rappresentazione del mondo visibile, trattando i temi del mare, della pioggia, della grandine, creano un’”immagine parallela”. La pittura come metafora del paesaggio, il paesaggio come metafora della pittura. A tre anni dalla morte – che avviene nel 2005 – la moglie Carla Panicali, avvia il lavoro di catalogazione della sua opera, prima della sua stessa morte nel 2012, sempre alla Maddalena.
Firenze
possiede una miriade di spazi in penombra, attraversati da secoli di memorie
sommerse, abitati da personaggi di cui merita portare alla luce il loro ricordo
perché resti memoria di quello che hanno compiuto a favore del prossimo.
Ritornare un po’ indietro nel tempo ci permette di poter raccontare di coloro
che , anche se poco conosciuti, hanno contribuito a cambiare un po’ la storia
ed a renderla migliore.
Era il 7 maggio 1937 quando Leto Isidoro Maria Casini, ordinato sacerdote nel 1928, fu nominato parrocco della Chiesa di San Pietro a Varlungo che all’epoca contava circa duemila abitanti. Nell’ ottobre del 1943 fu incaricato dall’ arcivescovo Elia Dalla Costa di prestare assistenza agli ebrei, vittime delle leggi razziali, dichiarati nemici della patria e come tali, condannati allo sterminio.
Dal 1933 le cose erano molto cambiate. Mentre in quell’ anno Benito Mussolini in una intervista, concessa allo storico austriaco Ludwig, aveva lodato ripetutamente gli ebrei, qualificandoli come cittadini esemplari, tanto da affidare loro incarichi di alta responsabilità nella scuola , nell’esercito e nelle finanze ed anche nelle accademie, da lì a poco seguì il voltafaccia, a seguito delle leggi razziali, emanate da Hitler a partire dal 1935, e del patto d’ Acciaio del 1939 tra Regno d’ Italia e Germania nazista. In pochi anni da cittadini esemplari gli ebrei divennero indesiderabili, privati di qualsiasi posto di responsabilità ed in ultimo dichiarati ostili e nemici della patria. Ci fu tra di loro chi riuscì ad eclissarsi, ma tanti furono gli ebrei che, a partire dall’ otto settembre del 1943, a seguito della dichiarazione dell’ armistizio dell’ Italia, si riversarono in massa nel territorio italiano, sicuri che a breve sarebbe stato occupato dalle forze alleate, lontani dal pensare che il paese sarebbe finito, come poi avvenne, sotto il controllo delle truppe tedesche.
Molti furono
gli ebrei che giunsero a Firenze da paesi stranieri, non conoscendo nessuno, né sapendo a chi
rivolgersi per chiedere aiuto. La Chiesa fiorentina, guidata da Elia Dalla
Costa, si prodigò a favore delle minoranze ebree presenti nella città. Fu
proprio il cardinale che nell’ ottobre del 1943 convocò Leto Casini, allora
sacerdote della parrocchia S. Pietro a Varlungo, invitandolo espressamente a
far parte di un comitato per la ricerca di alloggi, di viveri e di carte d’
identità per mettere in salvo tutti i perseguitati ebrei presenti in città. Per
fortuna la solidarietà e la carità non mancarono e molti enti sociali ed
associazioni religiose offrirono il loro aiuto. Come informa Louis Goldman nel
suo libro “Amici per la vita” un gruppo di donne ebree fu accolto a Firenze
nella zona di Varlungo, nei pressi della parrocchia di San Pietro, nel monastero vallombrosano dello Spirito Santo ,
edificio che nei secoli precedenti tutti avevano conosciuto come “villa la
Funga o il Pratello” e che oggi è sede di un pensionato universitario.
Leto Casini
era riuscito ad ottenere l’ appoggio
spontaneo della badessa che, spinta dalla gravità degli eventi, aveva accettato
di accogliere il gruppo di donne ebree, decisione che neppure il cardinale Dalla
Costa avrebbe potuto imporle. Fu una
scelta sofferta ed indubbiamente
difficile per lei, in quanto consapevole di infrangere le regole immutabili
della clausura e di dover affrontare grossi rischi per sé e per le sessanta
consorelle. Nascondere ebrei era considerato dai tedeschi un atto ostile,
paragonabile al tradimento e punito spesso con la perdita della vita. Alla fine
di ottobre del 1943 dodici donne ebree
furono ospitate nel monastero, tra cui una ragazza di tredici anni che aveva
assistito impotente qualche mese prima alla cattura di sua madre e di sua
sorella, trascinate via dai tedeschi. Occuparono stanze austere ma impeccabili in un’ ala del monastero rigorosamente
non riservata alla clausura. Il 6
novembre del 1943 ci furono numerose operazioni da parte dei tedeschi di razzie
e rastrellamenti contro gli ebrei. Il
monastero di Varlungo sembrò non essere più un luogo sicuro, ma Leto Casini
ritenne opportuno lasciare il gruppo di donne in quella sede, non trovando
altro luogo migliore. Pensarono opportuno nasconderle in una grotta sotterranea
che si trovava fuori in giardino dove all’ estremità, vicino al muro che
circondava la proprietà, c’ erano delle serre ed una costruzione con una
riserva d’ acqua sul tetto; dietro a questa costruzione il terreno degradava e
portava sottoterra ad una porta un po’ fatiscente oltre la quale, scendendo
alcuni gradini, si apriva una specie di cavità con delle volte, provvista
di sedili di pietra allineati tutti
intorno. Era usata come deposito di vasi da fiore e di arnesi da giardino.
Tutto venne rimosso , furono messi all’
esterno cumuli di paglia e letame
ammucchiati per camuffare. Le donne ebree lasciarono così le loro stanze
al monastero ed andarono letteralmente sotto terra. Le suore misero una fila di
piante davanti alla porta, che fu chiusa dall’ interno affinché nessuno
sospettasse che degli esseri umani vivessero lì, in una grotta. Dodici donne ed altri bambini,
che si erano aggiunti, erano stipati in uno spazio di tre metri per sei, appena
sufficientemente alto per stare in piedi. Non c’era sole che potesse
illuminarli e scaldarli, non avevano acqua, né luce, non potevano uscire per
paura di essere visti da abitanti negli stabili vicini. Stavano seduti in
quelle panche di pietra e parlavano a sussurri per paura di essere uditi all’
esterno. Dormivano a turno sdraiati in questi sedili. Il freddo era terribile e
l’ umidità raggiungeva indici molto alti. Erano assistiti anche dal trevigiano
don Giovanni Simioni che viveva presso
il convento in una casetta indipendente
e dalle suore che provvedevano a
porgere loro un po’ di minestra, dei panini , cipolle ed un po’ di caffè per la
mattina, tanto erano allora scarsi gli
alimenti. In quel periodo la carta annonaria dava diritto a soli trentatre
grammi di grano a persona e c’ era chi lo macinava con macinino da caffè e con
quel poco di farina faceva una “farinatina” integrale. Per fortuna, grazie all’
aiuto di Leto Casini e di alcuni agricoltori e
giovani donne di Varlungo, fu messo in funzione un mulino ad acqua che
si trovava sopra Rovezzano. Lì veniva portato il grano raccolto nelle campagne
intorno a Varlungo e da lì la farina veniva trasportata al forno del Bianchi,
da cui uscivano filoni di pane profumato. Tutto ciò rese possibile, almeno per
i primi tempi, la distribuzione di centocinquanta grammi di pane a testa tra la
popolazione di Varlungo . Non erano molti, ma sempre meglio di prima. Le
difficoltà quotidiane da affrontare erano tante ed i pericoli sempre in
agguato, ma le suore del Monastero dello Spirito Santo di Varlungo seppero al
meglio superarli ed affrontarli. Nei mesi di giugno, luglio ed agosto
del 1944 la situazione nella zona di Varlungo divenne di gran lunga più
difficile. I tedeschi provenienti
dal Valdarno Superiore attraversavano i
borghi di Rovezzano e di Varlungo in
lunghe colonne di barrocci trainati da cavalli , di carri agricoli tirati da
buoi, carichi di tutte le razzie fatte in case, ville e negozi lungo il loro
percorso. Per non passare attraverso la città deviavano da Varlungo, prendendo
via del Gignoro e via della Torre per poi dirigersi verso Ponte a Mensola e
salire a Fiesole da dove, attraverso il passo del Giogo tentavano di varcare l’
Appennino per ritornare in Germania. Il
passaggio di queste colonne creava a volte reazioni tra i civili con
conseguenti rappresaglie da parte dei tedeschi . Nonostante tutto questo le
suore del Monastero dello Spirito Santo dimostrarono un grande e profondo
spirito di solidarietà e di amore per il prossimo, incuranti del pericolo e prodigandosi
per mantenere in vita queste donne e bambini che in altro modo avrebbero
corso il rischio di essere sterminati e che, invece, grazie al loro aiuto riusciranno a ritornare
alla fine della guerra nei loro paesi di origine ed a ricongiungersi con i loro
familiari rimasti in vita.
Ma chi erano
le monache del Monastero dello Spirito Santo?
Era un
ordine monastico devoto di Sant’ Umiltà. L’ ordine risaliva a Rosanese Regusanti, una nobildonna nata a
Faenza nel 1226, anno in cui morì S. Francesco d’ Assisi, ed ancora oggi
venerata con il nome di Sant’ Umiltà. A
Firenze possiamo ammirare all’ interno del museo di San Salvi una sua raffigurazione
della scuola fiorentina della prima metà del XVI secolo, e la chiesa San
Michele a San Salvi conserva una statua marmorea, che la rappresenta,
attribuita ad Andrea di Cione o Orcagna. Nella Galleria degli Uffizi di Firenze è conservata un’ opera,
composta di varie parti, un polittico
del senese Pietro Lorenzetti che la raffigura al centro con l’ abito dell’ ordine , un libro ed una foglia
di palma, simbolo di gloria, con la testa coperta da una pelle di capra,
emblema di umiltà ed accompagnata da una serie di storie circostanti con
funzione didascalica, che narrano le vicende della santa dal momento in cui, ancora
laica, decise di vestire l’ abito monacale, ai miracoli compiuti nel cenobio a
Faenza, al suo viaggio a Firenze, dove nel 1282 fondò il monastero di San
Giovanni Gualberto, allora fuori della cerchia muraria cittadina, fino alla sua
morte ed alla cerimonia celebrata dal vescovo.
La giovane Rosanese Regusanti dopo il legame matrimoniale con Ugolotto
Caccianemici e dopo la morte prematura dei due figli, entrò a far parte dell’
ordine delle monache di Santa Perpetua , una comunità cluniacense della città
di Faenza, dove ricevette il nome di “Umiltà”. Durante il suo eremitaggio
si dedicò per molti anni alla preghiera
ed alla contemplazione mistica sino a che fondò a Faenza una comunità monastica
detta “La Malta”, cioè il fango, in quanto sorgeva fuori delle mura della città
in un luogo ancora paludoso. Era entrata a contatto con la spiritualità
vallombrosana del fiorentino Giovanni
Gualberto che, lottando contro l’ immoralità e le ingiustizie del suo tempo,
aveva cercato di unire i messaggi dei
Vangeli con la regola benedettina dell’ “Ora et labora”. E così anche Umiltà insieme alle donne aderenti all’
ordine conciliò la penitenza e la vita
monastica con l’ assistenza ai poveri ed
a tutti i bisognosi di aiuto senza alcuna distinzione. Gli stessi principi e
regole metterà in pratica quando nel 1281, per espressa richiesta da parte
delle autorità religiose, all’ età di 55 anni fonderà a Firenze, in una città
allora scossa da lotte interne, un monastero per accogliere ed assistere
giovani fiorentine . Il monastero fu costruito vicino all’ allora ponte sul
Mugnone, nel popolo di San Lorenzo, presso quella che poi sarà chiamata “ Porta
a Faenza”, proprio dal nome del
Monastero delle Donne della beata Umiltà di Faenza. La pala di Pietro Lorenzetti , esposta oggi alla
Galleria degli Uffizi, la raffigura china sul greto del Mugnone durante l’
azione simbolica di raccogliere “pillore” da costruzione e mentre compie i
primi miracoli. Accanto al monastero sorse
poi anche la chiesa, consacrata nel 1297,
dove il corpo di Umiltà venne conservato dopo la sua morte, avvenuta il 22
maggio 1310.
Oggi non
rimane alcuna traccia né della chiesa né del monastero. Tutto fu distrutto per
far posto alla Fortezza da Basso, costruita tra il 1534 ed il 1537 e dentro la
quale venne incorporata l’ antica Porta a Faenza, di cui ancora oggi rimane il
tracciato. Abbandonato il monastero, per le monache di Faenza iniziò un lungo
pellegrinaggio : il gonfaloniere Raffaello di Girolami assegnò loro il
monastero di Sant’ Antonio di Vienna, che sorgeva dove oggi si trova il palazzo
dei Congressi; dopo qualche anno si trasferirono nel monastero di Santa Caterina d’ Alessandria,
detto anche di Santa Caterina al Mugnone
o degli Abbandonati, poi in quello di S. Antonio. A partire dal 14 agosto 1534,
per volontà del papa Clemente VII,
furono nel convento vallombrosano, che
era stato fondato nell’ XI secolo da San
Giovanni Gualberto, alla cui
spiritualità Umiltà si era sempre ispirata, e che sorgeva accanto all’ antica
chiesa di San Salvi. Nel 1817, in seguito ai grandi rivolgimenti politici, determinati dalla rivoluzione francese , che
ebbero tra le tante conseguenze anche la
soppressione degli ordini monastici e l’ incameramento da parte dello Stato
delle loro proprietà, il convento di San Salvi passò al Granducato di Toscana .
Il Cenacolo diventò sede di un museo che raccolse intorno al celebre affresco di Andrea del Sarto opere d’ arte provenienti in gran parte
dalle chiese e dai monasteri soppressi della città di Firenze e del suo
territorio.
Le
monache si ritirarono nel monastero
posto su Costa S. Giorgio, nell’ antico convento dei frati agostiniani di Santo
Spirito, oggi sede della caserma di S.
Giorgio e della scuola militare, dove restarono sino al 1866, vale a dire sino
alla soppressione decisa dal governo italiano.
Nel 1872 la comunità delle Suore vallombrosane benedettine dello Spirito
Santo, dette anche Donne di Faenza, fu trasferita a Varlungo, portando con sé
il corpo di Sant’ Umiltà, e dove lì
accolsero nel 1943 quel gruppo di donne e bambini ebrei, salvandoli dai campi
di sterminio. A Varlungo rimasero sino al 1974, quando, a causa dei nuovi
insediamenti e del traffico, il luogo non fu più ritenuto adatto ad accogliere
una comunità di clausura e fu trasferito nel Comune di Bagno a Ripoli, sulle
colline fiorentine, in una originaria casa colonica,
detta anche “Il Palagio a Baroncelli”, che è stata ampliata e trasformata in
convento, dove ancora è custodito il corpo
quasi intatto di Sant’ Umiltà e dove ancora oggi la preghiera e l’ assistenza
sono le principali espressioni di questa emerita e non da tutti conosciuta
comunità religiosa, che ogni anno rinnova il secolare culto di Sant’ Umiltà,
facendo celebrare una significativa messa il 22 maggio, giorno della sua morte,
avvenuta nel 1310.
Uffizi Sala del Camino – 25 novembre 2018 – 10 marzo 2019
SI INAUGURA SABATO 24 NOVEMBRE LA MOSTRA CHE CELEBRA LA GIORNATA CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE
Firenze, 24 novembre 2018
Le Gallerie degli Uffizi presentano la nuova acquisizione di un bozzetto in terracotta per il Ratto di Polissena, gruppo monumentale realizzato in marmo dello scultore Pio Fedi ed esposto nella vicina Loggia della Signoria.
Dante Alighieri lo collocò tra gli assassini nel VII cerchio dell’Inferno(XII, 135) indicandolo semplicemente come Pirro, benché non sia chiaro se si riferisse al figlio di Achille chiamato anche Neottolemo, o al re dell’Epiro del quale però altrove tessé le lodi. È certo invece che Pirro/Neottolemo si erge con la sua spada sguainata nell’imponente gruppo marmoreo del Ratto di Polissena unica opera “moderna” ritenuta degna essere collocata accanto ai capolavori di Benvenuto Cellini e di Giambologna. Continua a leggere →
I curatori Marzia Faietti e Michele Grasso presentano la mostra
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D’ODIO E D’AMORE
GIORGIO VASARI E GLI ARTISTI A BOLOGNA
UNA MOSTRA PER INDAGARE I COMPLESSI, E CONTRADDITTORI, RAPPORTI FRA L’ARTISTA E STORIOGRAFO ARETINO E GLI ARTISTI A LUI CONTEMPORANEI AL DI LA’ DEGLI APPENNINI.
Dal 9 Ottobre al 2 dicembre nella sala Edoardo Detti, al primo piano della Galleria degli Uffizi.
«Né è maraviglia che quella d’Amico fusse più pratica che altro, perché si dice che, come persona astratta che egli era e fuor di squadra dall’altre, andò per tutta Italia disegnando e ritraendo ogni cosa di pittura e di rilievo, e così le buone come le cattive… le quali fatiche furono cagione che egli fece quella maniera così pazza e strana».
Questa citazione dalla Vita di Bartolomeo da Bagnacavallo e d’altri Pittori Romagnuoli è tratta dall’edizione del 1568 delle Vite del Vasari. Il “praticaccio inventore” era Amico Aspertini, ma Vasari allarga il suo caustico giudizio a tutti gli altri pittori bolognesi a lui contemporanei definendoli con “il capo pieno di superbia e di fumo”. Non solo: nella Vita di Michelangelo aggiunge la velenosa nota per la quale il Buonarroti avrebbe lasciato Bologna dopo solo un anno di permanenza perché lì “perdeva tempo”. Continua a leggere →
TORNA AGLI UFFIZI IL SACRIFICIO DI ISACCO DI CARAVAGGIO
Firenze, 3 agosto 2018
Dopo dieci mesi di assenza per il prestito concesso in occasione di due importanti mostre, a Milano e a Forlì, il gesto dell’angelo che ferma all’ultimo, drammatico, momento il braccio di Abramo deciso a ubbidire al volere del Signore ed a uccidere il figlio Isacco, descritto con incalzante realismo da Caravaggio, è tornato oggi agli Uffizi.
L’arte a FIRENZE tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento
Dopo il riallestimento delle opere di Caravaggio e del ‘600, a febbraio, e della sala di Michelangelo e Raffaello, dello scorso mese, si inaugura ora agli Uffizi quella dedicata a Leonardo da Vinci.
Era il 1504 e a Firenze giunge Raffaello Sanzio, giovanissimo, ma già eccelso, secondo il racconto vasariano richiamato dalla fama dei cartoni di Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti, quelli preparati in vista della decorazione della Sala Grande di Palazzo Vecchio con la Battaglia di Anghiari e la Battaglia di Cascina. Si era dunque, in quel momento, davanti ad una concentrazione di geni assoluti, quale mai più si verificherà nella storia della città. Continua a leggere →
Palazzo Davanzati espone il suo “Omaggio a Elia Volpi pittore”
Una mostra di disegni e dipinti inediti per scoprire il lato meno noto del “padre” del Museo della Casa Fiorentina Antica.
Domenica 6 maggio, alle 17.00 al Museo di Palazzo Davanzati in via di Piazza Rossa 13, sarà inaugurata la mostra Omaggio a Elia Volpi pittore. Un’occasione per scoprire un lato meno conosciuto dell’originale ed eclettico personaggio cui è legata la nascita del Museo della Casa Fiorentina Antica. Continua a leggere →
In occasione della seconda edizione della “Giornata Nazionale del Paesaggio” promossa dal MiBACT, la Galleria dell’Accademia di Firenze offre una visita guidata gratuita giovedì 14 marzo, dalle ore 17.00 alle 18.00, dal titolo “Il profumo del simbolo. I fiori nei quadri dell’Allori”.
La visita speciale sarà tenuta dal Dottor Paolo Luzzi, responsabile dell’Orto Botanico del Museo di Storia Naturale dell’Università degli Studi di Firenze. In tale occasione, sarà possibile scoprire la simbologia dei fiori delle grandi tavole di Alessandro Allori custodite nel Museo, in particolare l’’Annunciazione” e l’”Incoronazione della Vergine”.
Per chi desidera partecipare, il punto di incontro è previsto presso la biglietteria, alle 16.45, muniti di biglietto di ingresso al Museo.
Galleria dell’Accademia di Firenze, Via Ricasoli 58-60, 50122 Firenze