Venerdì 8 settembre, ore 17.30-19.30,
nelle Sale Fabiani di Palazzo Medici Riccardi
(Firenze, via Cavour 1)
Sarà inaugurata la mostra
“Sequenze orfiche. Martirologio della follia”
di Roberto Panichi
Interventi di Anita Valentini e Gianni Venturi
Fra i tanti interventi che in Catalogo presentano l’Artista,
pubblichiamo quello di Manlio Cancogni
La chiave sul mondo
Roberto Panichi è di Firenze; ma del fiorentino gli manca la superbia che fa credere a chi ha avuto la fortuna di nascervi, di poter fare da solo ignorando tuttociò che accade altrove.
A lui non basta sentirsi le spalle protette da tanti numi tutelari, Giotto, Masaccio, Paolo Uccello, Andrea del Castagno e magari il Pontormo e il Rosso. Ha voluto e vuole guardare oltre le mura di casa. E ha visto moltissimo.
L’ampiezza e la varietà delle sue esperienze mettono sgomento. Nella sua pittura sembra passare tutta l’arte europea di questo secolo.
Non basta; oltre i riferimenti d’obbligo a Picasso, Matisse, Bracque, Kokoschka (mi limito a citare i maggiori) si intravedono reminiscenze ottocentesche, e risalendo più addietro nel tempo, barocche e rinascimentali. E ancora più oltre si possono scorgere le tracce di antichissime pitture murali, fino ai graffiti di popolazioni primitive ed ignote.
Non si tratta tuttavia di dotte citazioni, chiaramente individuate e distinte. Panichi è certamente uomo di grande cultura; ma è soprattutto un artista, originale e diretto.
Intendo dire che per lui, vedere le cose attraverso il filtro della memoria figurativa (associando a un’immagine quelle che si sono sedimentate nel tempo, sovrapponendole, mescolandole, scomponendo e ricomponendo, mischiando segni e colori) è un’operazione naturale. Fra l’artista e la realtà oggettiva, pare che dica, ci sono molte più cose di quanto comunemente si creda. E io, Roberto Panichi, fiorentino anomalo, ho la fortuna di vederle.
In una pittura così vitale ed eccitante è facile tuttavia smarrirsi, rischiando il naufragio. Ma Panichi non si lascia travolgere dalla propria inesauribile capacità evocativa.
Mentre si abbandona al gioco turbinoso delle correnti, tiene sempre lo sguardo al disopra dei flutti. E, ciò che conta, ci tiene gli occhi e l’intelligenza di chi lo sta a guardare.
Manlio Cancogni
(Da Opere 1989-1994. Metastoria della forma, Edizioni d’Arte Giorgio Ghelfi, Verona, 1995; “ARTE Mondadori”n. 296 aprile 1998)