Da: Bollettino d’Arte, vol. 18 (1924-25), p. 337-350
(trascrizione di Paolo Pianigiani)
Francesco di Giovanni Botticini fu definito un « eclettico ». La sua arte divenne, pertanto, come un alveo capace dove liberamente andarono a convergere e a confluire tutte le indeterminate correnti, le indecise attribuzioni e le minori manifestazioni anonime della pittura fiorentina del XV secolo, le quali, movendo da Domenico Veneziano sino al Baldovinetti, al Verrocchio e al Ghirlandaio, dai Pollaiolo al Botticelli e a Cosimo Rosselli, si poterono riconnettere in qualche modo, stilisticamente, a questi artisti.
Singolare esemplificazione di tali indeterminatezze e di tali indecisioni, che trovarono un conclusivo sbocco in Francesco di Giovanni, è la famosa tavola dei Tre Arcangeli e Tobia, già in S. Spirito di Firenze, per la quale il Bocchi, il Cinelli e il Richa fecero il nome di Sandro Botticelli, i Crowe e Cavalcaselle quello dei Pollaiolo, il Bayersdorfer e il Bode quello del Verrocchio — W. von Bode disse la tavola dipinta verso il 1470 —, il Mesnil quello di Chimenti di Piero — datando invece la tavola medesima tra il 1463 e il 1467 —, il Berenson e il Kühnel, infine, il nome di Francesco Botticini, assegnandone l’esecuzione dopo il 1475. Oggi si ritorna a parlare di « bottega » e di « maniera » del Verrocchio.
Ernesto Kühnel nel suo Francesco Botticini (Strassburg 1906) ha tentato, dopo il Berenson, la compilazione di un lungo elenco di dipinti riferibili a Francesco di Giovanni: il S. Agostino e S. Monica dell’Accademia di Firenze, già « A. Pollaiolo », dati dal Bode al « Maestro dell’altare Rossi », dal Cavalcaselle e dallo Schmarsow al Botticini; la pala con S. Girolamo e i Ss. Damaso e Eusebio, Paolo e Eustachio della Galleria Nazionale di Londra, già « Scuola toscana » ; la tavola di 5. Monica in S. Spirito di Firenze, già « Fra Filippo », dal Cavalcasela assegnata al Botticini; l’Incoronazione della Vergine della Galleria di Berlino, già « Scuola del Verrocchio », data dal Bode al « Maestro dell’altare Rossi », dallo Schmarsow al Botticini; la Pietà con S. Maria Maddalena e i Ss. Bernardo e Sebastiano in S. Apollonia di Firenze, già « Maniera di Andrea del Castagno », poi attribuita al Botticini dal Berenson; una Deposizione nella Raccolta André a Parigi, attribuzione Berenson; l’Incoronazione della Vergine della Pinacoteca di Torino, già « Raff. Botticini » ; la tavola con la Madonna e Figlio e i Ss. Sebastiano, Paolo, Jacopo e Antonio, di Brozzi (Firenze), che il Kühnel dice dipinta nel periodo giovanile del Botticini (l’attribuzione devesi al Berenson; il Cavalcaselle suppose in una Vergine con Santi e Battesimo di Gesù, nella stessa chiesa, la mano del Botticini, il Kühnel pensa, ma indeciso, a David Ghirlandaio, né crede del Botticini la lunetta col Padre Eterno come ritiene il Berenson); la Vergine e Figlio e quattro santi nella Galleria comunale di Prato, già « Maniera di Ben. Gozzoli », da A. Venturi creduti d’uno scolaro di Filippo Lippi, dal Berenson e dal Frizzoni del Botticini; la Crocifissione di Berlino riferita come prova dell’influenza del Verrocchio nel Botticini, già detta dal Bode del « Maestro dell’altare Rossi », fatta dipingere nel 1475 da Beltrame di Stoldo de’ Rossi; la Vergine in gloria del Louvre, già attribuita « al Rosselli o alla Scuola del Verrocchio », dallo Schmarsow al Botticini, con evidenti affinità di stile e di epoca col Tabernacolo di S. Sebastiano nella Raccolta della Collegiata di Empoli; l’Assunzione della Vergine, de’ Palmieri, nella Galleria Nazionale di Londra, già « Botticelli » e dall’Ulmann riconosciuta per Botticini; il Tabernacolo di S. Sebastiano co’ due Angeli e la predella nella Pieve d’Empoli, dato pure al Botticini, concordemente, dal Cavalcaselle, dal Berenson e dal Bode; L’Annunziazione nella Collegiata d’Empoli, già « Filippino Lippi », per A. Venturi del Botticini (nella Madonna vede l’influenza tanto del Rosselli quanto di Filippino); il tondo della Vergine in adorazione e Figlio della Collezione Arconati-Visconti di Parigi; la Vergine con putti di proprietà Mrs. Gardner di Boston; la Vergine in adorazione e Figlio, di Modena, già « Verrocchio » ; il tondo della Vergine in adorazione e Figlio della Galleria Pitti, già « Filippino Lippi », dato al Botticini dal Berenson e dal Frizzoni; il tondo della Vergine e Figlio della Raccolta Benson di Londra, proveniente dalla Raccolta Panciatichi di Firenze, dipinto già « Rosselli » ; il Ritratto della Raccolta reale di Stoccolma, già attribuito al Botticini dal Berenson; Raffaele e Tobia dell’Accademia di Firenze già « Botticelli » ; il tondo de’ Magi della Raccolta Ryerson di Chicago, e infine il Ritratto di giovane in costume del XV sec. della Galleria Pitti, già « Botticelli ».
E potremmo ancora aggiungere dipinti dal Kühnel non ritenuti del Botticini o a lui sconosciuti, come per es. i Ss. Sebastiano e Giov. Battista della Galleria comunale di Faenza pubblicati da A. Venturi; due cassoni dipinti con la Storia di Virginia, di proprietà della Principessa Antinori Duchessa di Brindisi, dal Berenson e dall’Home attribuiti al Botticini ; un frammento (di circa cm. 90 X 40), segnalato dal De Nicola, esistente a Pratovecchio in Casentino, con « Maria Assunta » nella maniera di Francesco Botticini (cfr. l’Arte 1914, n. 257, in nota) e l’Arcangelo Gabriele e Tobiolo della Galleria Morelli di Bergamo, già «Scuola toscana », dati dal Frizzoni, contrariamente al parere del Kühnel (p. 53), al Botticini: «squisita tavoletta», scrive il compianto critico, la quale, non ostante « una specie d’intercalare che si ripete nelle sue opere », « gode sempre della compiacenza degli amanti dell’arte pura e delicata, quale si rivela fra eletti maestri dell’arte toscana del Quattrocento ». (cfr. Rass. d’Arte, 1912, pp. 1 14-15). Un’altra tavoletta con l’Arcangelo Raffaele dipinta nel 1472 o 73 dal Botticini per i suoi confratelli della Compagnia dell’are. Raffaele, detta il Raffa, tavoletta offerta a un tal Domenico da Genova che alla Compagnia aveva donato un tappeto, è andata perduta.
Unica opera certa, e databile, uscita dal pennello di Francesco di Giovanni Botticini è la tavola per il tabernacolo del Corpo di Cristo commessagli dalla Compagnia di S. Andrea della veste bianca d’Empoli e tuttavia esistente nel piccolo Museo di quella Pieve; tavola della quale il Milanesi e il Poggi pubblicarono nella loro integrità i documenti di allogazione, di contestazione durante il lavoro, di trasporto, di collocamento e di rifinimento. A quest’ultimo attese Raffaello Botticini figlio di Francesco.
Della tavola per « el santissimo chorpo di Christo », da collocarsi « a l’atare magore della Pieve d’Enpoli », si cominciò a parlare dalla Compagnia di S. Andrea il 31 marzo 1483. Un anno appresso, il 28 marzo 1484, fu data a dipingere a Francesco di Giovanni di Domenico Botticini con obbligo di consegnarla compiuta entro il 15 agosto 1486.
Nel 1490 sorsero gli inevitabili contrasti tra pittore e Compagnia, e questa nominò tre procuratori per « chonvenire el dipintore » dinanzi al giudice, « a fallo fare e chonducere la tavola in perfezione a finilla ». Il 14 maggio 1491 furono eletti arbitri per la stima delle « dipinture e lengniame e oro » e per appianare le differenze di denaro tra il Botticini e la Compagnia, Domenico del Ghirlandaio, Filippo di Giuliano, Neri di Bicci — il primo maestro al quale venne affidato il Botticini — e Alessio di Alessio Baldovinetti. In seguito a tale arbitrato, il 28 maggio susseguente la tavola giunse in Empoli e, nella notte fra il 3 I di quel mese e il primo di giugno 1491, venne collocata sull’altare maggiore della Pieve. Non del tutto compiuta però « secundum primum ordinem et formam olim conventam » con Francesco Botticini; tanto che il 10 agosto 1504 la Compagnia deliberò di affidare la perfezione « diete tabule, secundum modellum antichum », a Raffaello, « olim Francisci », stanziando una spesa di 30 fiorini.
Francesco di Giovanni era già morto dal 22 luglio 1497. Ed è anche da supporre di che male. La peste infieriva in que’ giorni a Firenze: i poveri cadevano di stento per le vie e, come narra il Diario di Luca Landucci, la città si votava di cittadini che fuggivano alle lor ville per scampare il morbo e la febbre. Erra pertanto A. Venturi affermando che il Botticini si spense il 17 gennaio 1498, sebbene citi il Poggi, il quale, della fine del Botticini, rintracciò la data precisa in un « Sepultuario » di S. Ambrogio di Firenze. Morì a 5 I anno, e sei ne erano trascorsi dall’esecuzione della tavola per il Corpo di Cristo, commessagli dalla Compagnia di S. Andrea.
Per i riferimenti stilistici ci rimane, adunque, solo un’opera condotta negli ultimi anni della vita del pittore, quando l’arte del Botticini era pervenuta a completa maturità; un’opera unica e non scevra forse da’ ritocchi e perfezionamenti apportativi dal figlio Raffaello. Troppo poco a dir vero, perchè l’industriosa e laboriosa ricostruzione dell’attività artistica del Botticini, tentata dal Berenson e dal Kühnel, non lasci incerti e perplessi e anche talora non consenzienti.
A tale ricostruzione si è giunti per vie indirette. Valsero delle ipotetiche induzioni a fissare i primi punti di fondazione, e, via via, avvicinando uno ad un altro elemento di stile, una a un’altra data, uno a un altro nome, l’edificio delle congetture riuscì a prender linea e apparente solidità.
Nel 1459, a circa 13 anni, il Botticini andò come garzone presso Neri di Bicci, il quale teneva in Firenze la sua fiorente bottega di pittura — ereditata dal padre Bicci di Lorenzo — nel quartiere di S. Spirito, presso la chiesa di S. Frediano. Il padre di Francesco Botticini, Giovanni, che dipingeva « carte da gioco » (naibi), desideroso di avviare ad un’arte più decorosa il proprio figlio lo affidò a Neri di Bicci; ma appena eran corsi nove mesi che il discepolo fuggì. O fosse irrequietezza di ragazzi o asprezza di modi nel maestro o durezza nel lavoro imposto, altri garzoni, divenuti in seguito pittori di qualche grido, entrati nella bottega di Neri avevano dopo breve sosta abbandonata la macina dei colori. Giusto d’Andrea, tra essi, che fu poi a lavorare sotto Fra Filippo e più tardi col Gozzoli a S. Gimignano, e Cosimo Rosselli, il quale si era posto a garzone con Neri di Bicci nel 1456.
Ma la scappata del ragazzo non lasciò rancori. Ce ne dà prova e contezza un ricordo del 5 agosto 1469 per il quale sappiamo che « a vedere e intendere e giudichare sechondo la sua coscienza », d’una tavola dipinta da Neri di Bicci per il monastero di S. Maria a Candeli, al Canto a Monteloro — il punto dove via de’ Pilastri e degli Alfani (già Cafaggiolo) fanno capo a Borgo Pinti — fu chiamato « albitro e amicho comune » Francesco di Giovanni dipintore, del popolo di S. Lucia d’Ognissanti.
In Cosimo Rosselli, maggiore di otto anni a Francesco di Giovanni Botticini, si è anzi voluto vedere l’istigatore alla fuga del Botticini medesimo dalla bottega di Neri di Bicci e si è pensato ad una scambievole giovanile dimestichezza e amicizia tra i due e a una conseguente influenza artistica di Cosimo su Francesco, per tecnica, per colore, per disegno. Ed ecco uno di que’ punti di fondazione serviti ad architettare l’industriosa ricostruzione dell’attività artistica del Botticini. Poi si stabiliranno dei possibili rapporti, e dei tenui legami tra esso e Andrea del Castagno, tra esso e Fra Filippo, fra esso e il Pollaiolo, fra esso e il Verrocchio, poi si supporrà che, nel 1471 circa, quando aveva già 25 anni, « forse » entrò nella bottega di Sandro Botticelli, e l’edificio di bozza in bozza, di piano in piano, arriverà sino alla sommità e alla copertura.
Con tale procedimento di illazioni e di deduzioni, è, infatti, venuto fuori un Botticini travisato e « di maniera », lontano da ogni rigida valutazione artistica e da ogni sicura verità storica. Sebbene nessun dipinto della sua giovinezza ci rimanga o firmato o datato o convalidato da documenti, sebbene si sappia — come abbiamo visto — che il Botticini stette solo per otto mesi, a 13 anni, a macinar colori in S. Frediano presso Neri di Bicci, sebbene sia fantastica supposizione che lì conoscesse Cosimo Rosselli, pure, anche A. Venturi, non esiterà ad affermare che il Botticini, nel « periodo primo » della sua attività pittorica, « in cui già si accostava al Verrocchio », serbava traccia dello studio fatto « presso il Bicci e il Rosselli », e continuerà a scrivere di « lavoro trasandato » e di « disfacimento delle forme degli ultimi anni di Francesco Botticini », concludendo: « Par quasi che il lavoro di pratica a cui si dette quel pittore nei teneri anni per colorire carte da giuoco, e l’altro che imparò nella bottega di Neri di Bicci, non gli permettessero più di approfondire la maniera e di elevarla, nonostante gli esempi solenni del Verrocchio ».
Ma come da Neri di Bicci non aveva imparato niente, e come è irrazionale pensare che nel 1475 — a 29 anni — sotto la diretta influenza del Verrocchio dipingesse la farraginosa e pesante Crocifissione ora a Berlino, con santi larghi e tozzi, per poi ritornare alle delicate storiette e alle esili figurine della predella d’Empoli del 1484-91, così non è vero che nei teneri anni il Botticelli colorisse carte da gioco. Neri di Bicci nel suo « Libro di ricordi » parla del padre e non del figlio: « Richordo che ‘1 detto dj — 22 ottobre 1459 — tolsi, da Giovanni che dipignie naibi, per discepolo suo figliolo (Francesco), per un anno ».
Anche Emilio Schaeffer riassumendo la vita del Botticini nell’ Allgem. Lex. der bild. Künsller, dopo aver premesso che la formazione del Botticini nelle botteghe di Cosimo Rosselli, del Verrocchio e forse anche del Botticelli, poteva esser probabile, ma non accertata da documenti, finisce per dare, come cose autentiche del Botticini, una serie di svariate e discutibili attribuzioni, vedendo nelle costruzioni ossute e legnose delle sue figure l’imitazione di Andrea del Castagno, nelle Madonne e nell’ornamento delle corone di fiori la derivazione da Fra Filippo, negli angeli l’ispirazione dal Botticelli, nel tormento delle pieghe la ricopiatura dal Verrocchio, nel paesaggio il plagio dal Baldovinetti e dai Pollaiolo.
Tutti questi rilievi e tutte queste considerazioni dicono come le opere di Francesco sieno più rare e pregevoli di quel che si pensi, e, data la sua figura d’artista non ancor nettamente delineata, come sia meno agevole di quel che possa apparire lo stabilir con evidente sicurezza l’autenticità de’ suoi dipinti, appena ci si ponga a sfrondare il troppo e il vano.
Un’opera decisamente sua — e sino a qui ignota e inedita — suggestiva per una serena dolcezza d’espressione, per una composta eleganza di forme e per una pacata tenuità di colorito, è la tavola, con S. Sebastiano, trovata e riconosciuta nel 1921 da chi scrive.
Esisteva da lontani tempi in una piccola cappelletta privata nella Villa del Colle, sopra Limite, oggi proprietà del cav. Guido Cinotti. Prima che la Villa passasse nel 1837, per vitalizio, ai Cinotti, era dei Seminetti o Siminetti, detti anche Della Sanella e Da Empoli: famiglia di patrizi fiorentini che sino dal 1304 diede per il Sesto di Borgo e poi per il Quartiere di S. Maria Novella priori alla Repubblica fiorentina e gonfalonieri di giustizia, e, via via, uomini eminenti nelle magistrature de’ secoli successivi.
La Cronica di messer Donato e di Paolo Velluti ricorda monna Cicilia di Bartolomeo Siminetti. entrata sposa « molto fanciulla » nella lor casa, a metà del XIV secolo, e la Cronica di Buonaccorso Pitti ricorda Nofri di Giovanni Siminetti che fu compagno di Buonaccorso, quando questi fu gonfaloniere di compagnia nel maggio 1403. Anche nella Galeria dell’Onore (1735) del Marchesi, è cenno come tenessero la signoria di vari luoghi verso Montatone e come memorie della pietà e splendidezza de’ Siminetti restino ne’ templi e nelle prebende fondate da loro, tra cui la chiesa di S. Martino del Colle nel piviere di S. Maria a Limite, in diocesi di Pistoia.
In questa chiesa di S. Martino, presso la Villa del Colle, è sepolto l’ultimo dei Siminetti: Niccolò di Lodovico Maria di Averano Siminetti, senatore fiorentino e gran priore del Sacro Ordine equestre di S. Stefano, Dalle « provanze » di nobiltà, esistenti nell’archivio dell’Ordine, si ricava come il cav. Niccolò fosse imparentato con gli Uguccioni, già Lippi, di Firenze e coi Barbolani di Montauto d’Arezzo. Fu uomo di grande religione, di assennato consiglio, nè senza merito e lode tra’ letterati del suo tempo. Sposatosi con Maria Egiziaca Masetti, fiorentina, morì in Pisa nel 1 790 disponendo tra gli atti di ultima volontà di riposare nella chiesa di S. Martino presso la Villa del Colle: villa, fra gli oliveti e i cipressi, che aveva abbellita e ampliata con taglio e garbo settecentesco e nell’interno della quale esisteva la cappelleria privata dove veneravasi la tavola con S. Sebastiano.
Dall’unica figlia e erede del cav. Niccolò, la marchesa Angela Siminetti-Guasconi, il S. Sebastiano passò. — come già dicemmo — ai Cinotti, e dal cav. Guido Cinotti ne fece recentemente acquisto il Ministero della P. I., su proposta di chi scrive, destinando il dipinto alle RR. Gallerie degli Uffizi.
Per affermare l’evidente autenticità del S. Sebastiano non occorrono, nè indulgenti concessioni al nostro buon volere, nè ardue e complicate ipotesi. Basterà dalla predella della tavola per il Corpo di Cristo, databile tra il 1484-91, risalire alla predella e agli angeli del tabernacolo, col S. Sebastiano del Rossellino, nella Collegiata d’Empoli, per arrivare al preciso punto di contatto col S. Sebastiano di Casa Siminetti.
Confrontando le storiette delle due predelle, queste resultano stilisticamente collegate e dominale come da un pensiero unico, il quale si ripete nel modo di narrare gli episodi, di aggruppare le figure, di vestirle, di muoverle, di dare alle scene sfondi di campagne e delimitazioni di edifici.
Nella predella della tav. del Corpo di Cristo sono: I) Il Martirio di S. Andrea; 2) La Cattura di Cristo; 3) La Cena; 4) l’Orazione nell’Orto; 5) la Decollazione del Battista; 6) il Banchetto d’Erode; nella predella del tabernacolo di S. Sebastiano, le storiette relative a questo santo: a) S. Sebastiano conforta i martiri cristiani e Suo arresto; b) S. Sebastiano dinanzi a Massimiano e Diocleziano ; c) Il martirio delle frecce; d) La flagellazione e la morte.
L’ esecuzione delle storiette di S. Sebastiano, precede quella delle storiette de’ Ss. Andrea e Battista; ma non si deve pensare ad un troppo lungo spazio di tempo. Vi sono dei richiami d’ambiente chiaramente manifesti. Le lunghe linee di mura merlate ricorrono nella scena del martirio di S. Andrea e in quella del martirio del Battista, come si ripetono nella scena di S. Sebastiano dinanzi agli Imperatori e nella flagellazione del Santo.
La porta arcuata, con le bozze e i cunei della mostra, in aggetto, separati tra loro da un rigo bianco, si trova quattro volte negli edifici tra’ quali si svolgono gli episodi di S. Sebastiano, e identicamente è ripetuta nella decollazione del Battista. Il terreno, sia nel martirio di S. Andrea, sia nell’arresto e nel martirio delle frecce di S. Sebastiano, ritorna con l’identica nudità scabra, qua e là rotta da radi cespugli fioriti : un terreno che prospetticamente si dilunga sino alle piccole valli lontane lisce e piene di chiarore, come golfi di luce, e alle collinette lievemente ondulate e intersecate tra loro, da dove si levano e spiccano due, tre alberetti dalla chioma folta e ramosa.
Il quadro è sempre equilibrato: un episodio centrale e due gruppi che lo fiancheggiano. Gli armati, nell’arresto di Gesù, nel martirio di S. Andrea, nel martirio delle frecce di S. Sebastiano, ricompaiono con identiche fogge di maglie, di corazze, di cappelli, di lance, e ritorna la bandieretta con S. P. Q. R., delle medesime dimensioni, con l’eguale svolazzamento ondulato, con lo stesso modo di legatura all’asta. E in altri gruppi, tuniche e ermellini e guarnelli e calzoni divisati e giustacori scanalati e coietti e manti e turbanti e guarnimenti e lunghe barbe e capigliature folte e volti che si interrogano a vicenda e mani che gestiscono o implorano o comandano e spagliere fiorite dietro i troni e tappeti dal caratteristico disegno orientale distesi e seguenti la linea spezzata dei gradini e un cane fedele che in variate attitudini ricomparisce nelle quattro scene di S. Sebastiano e un gatto che guarda la macabra offerta della testa del Battista sul bacile d’argento traboccante di sangue.
Questa è arte sua: piccola, ma d’immediata impressione, e narrativa senza sforzo, gustosa senza artificio, e attraente senza plagi. È un fiorentino del 400 che racconta, ancora con fedeltà di dettaglio, le leggende cristiane di Jacopo da Voragine.
Ricollegate stilisticamente le due predelle della Pieve d’Empoli, distanziate nel tempo, ma dominate da un medesimo modo di sentire e di fare, non è difficile riconoscere i diretti rapporti fra il S. Sebastiano della storietta del martirio delle frecce col S. Sebastiano della tavola già Siminetti.
Anche questa storietta, come le altre della predella, è stata molto guastata e sfregiata; pure il colore, il disegno, il sentimento vi tralucono tuttavia attraverso il deperimento, affrettato dalla mano di qualche vandalo o di qualche inconsapevole.
Il S. Sebastiano della storietta e il S. Sebastiano della tavola sono riprodotti in due momenti diversi. Nella storietta, il santo già colpito da sei frecce, guarda a destra verso l’alto ad un angelo che gli reca la corona del martirio, mentre il corpo, spostato da destra a sinistra, pianta sul piede destro; nella tavola Siminetti l’inutile martirio è avvenuto, l’angelo comparisce dalla parte sinistra, il corpo del Santo è spostato da sinistra a destra e pianta sul piede sinistro. Nella storietta, occhi miti che invocano il cielo, mentre gli arcieri con rabbiosa furia tendono le corde degli archi o curvi sulla balestra si affrettano a ricaricarla; nella tavola, sopra un fondo di cielo, il sereno e composto sfidatore dell’ira imperiale, invano lacerato e trafitto da otto frecce, invano grondante sangue dalle ferite, invano martirizzato, invano creduto ucciso.
Ma se si astrae da questi due diversi momenti di sentimento e di rappresentazione, per osservare e ravvicinare i soli elementi stilistici, un notevole numero di richiami non mancherà per confermare l’identità formale esistente tra il S. Sebastiano della storietta e il S. Sebastiano della tavola Siminetti: le frecce simmetricamente disposte, una al collo, a destra, due sotto le ascelle, due sopra i fianchi; la impennatura delle frecce; il colare lungo e filiforme del sangue dalle ferite; il perizoma floscio, quasi non aderente al corpo e incrociato in modo da ricadere davanti a guisa di pendone con una caratteristica piega trasversa dal fianco sinistro al ginocchio destro (anche nella crocifissione di S. Andrea il perizoma avrà lo stesso andamento, con la sola diversità che sarà annodato, anziché dietro, sul fianco); il modo di scorciare il piede che pianta; la rotula del ginocchio raddoppiata; la cicatrice dell’ombelico sopra il perizoma; lo sviluppo de’ grandi pettorali; la gabbia toracica fortemente segnata; la capigliatura a ricci, pesante e abbondante, che ricade sulle spalle.
Ma un elemento di identità assoluta e di ricopiatura perfetta si riscontra, oltre a tutto, nei due angeli in atto di porgere la corona del martirio, e cioè: l’ondulamento del corpo, la ripresa e lo svolazzamento della veste (nella tav. Siminetti la veste è in parte ritoccata), le nuvolette ai piedi degli angeli traversate da raggi luminosi, il medesimo modo di segnare le ali e le penne, il medesimo atteggiamento nel porgere la palma e la corona, la capigliatura stirata sulla nuca e formante attorno a questa una zazzera spessa e minutamente ricciuta (identico profilo del volto e identica capigliatura ripeterà poi nella Salomè che tiene nel bacile la testa del Battista), e infine la corona marchionale lucente d’oro, ripetuta con forme araldiche, tanto perfettamente, sia nella storietta, sia nella tavola, da sembrare, quasi direi, una firma.
Eclettico? Quando il Botticelli dipinse il S. Sebastiano, ora a Berlino — tavola che si vuole identificare con quella (1473) già addossata ad una colonna di S. Maria Maggiore di Firenze — il Botticini aveva 27 anni; quando i Pollaiolo eseguirono il loro Martirio di S. Sebastiano (1475) per i Pucci « nella chiesa di S. Bastiano, accanto alla Nunziata » — ora nella Galleria di Londra — ne aveva 29. Il S. Sebastiano del Botticini non risente nè dell’uno nè dell’altro. Non ha il corpo adusto di quello di Sandro, nè la tensione dolorante di quello di Antonio e Piero del Pollaiolo; vi è una diversità assoluta di concezione e di esecuzione. Il S. Sebastiano del Botticini è più giovane, più femineo, più aggraziato, e gli luce negli occhi, che fissano un punto e lo seguono e lo inseguono, un sentimento fermo di sfida verso i propri persecutori: non la pensosa malinconia botticelliana, non l’angosciata speranza espressa dai Pollaiolo.
Tra il Martirio di S. Sebastiano dei Pollaiolo e la storietta del Martirio di S. Sebastiano del Botticini, esiste invece una spiccata relazione iconografica: sia per i due saettatori che tendono l’arco con tutta possa, sia, e più specialmente, per l’attitudine del balestriere che si curva a ricaricare la balestra.
La tavola dei Pollaiolo, nella quale, in S. Sebastiano, venne ritratto Gino di Lodovico Capponi — l’Albertini, il Billi, e l’Anonimo gaddiano assegnano la tav. esclusivamente a Piero —, dovè certo destare l’interesse e la curiosità degli artisti, quando fu collocata sull’altare dell’oratorio dei Pucci a’ Servi.
Tra gli altri, la vide di sicuro il Botticini. Se da essa, come pare indubitato, ne trasse motivo per la sua storietta della predella di Empoli, il tabernacolo di S. Sebastiano nella Pieve d’Empoli è posteriore al 1475. Non sarebbe più dunque quell’opera tanto giovanile quanto la ritenne il Cavalcaselle.
Anteriore invece a questa data è da giudicarsi il S. Sebastiano dei Siminetti. Ne appare come un segno rivelatore in quell’indugio antiquato di chi ancora sa che deve dipingere « il santo » e si attarda attorno al nimbo d’oro e lo stampa sul fondo, simile a un sole dietro la testa del martire, e lo lavora con piccoli ferri a rosette e a perline — nimbo che il Botticini non ripeterà più —; e segno rivelatore è pure in quelle sue pieghe del perizoma gonfie e ondulate, senza spezzature, senza tormento e senza aderenza. Ma nel S. Sebastiano del Botticini, oltre questi ricordi di una vecchia tradizione pittorica, già si palesa la linea agile e fresca e, direi quasi, umanistica del nudo, lo studio anatomico delle estremità (i due piedi del S. Sebastiano saranno poi perfettamente ripetuti nell’angelo di destra del tabernacolo d’Empoli) e quel particolare modo di fare l’occhio, di segnare il sottile arco delle ciglia, di aguzzare l’ovale del volto, col mento a punta e le mandibole slargate e i capelli a ricci spessi e serpentini; maniere tutte che si rivelano pure nelle prime opere personali del Botticelli, quando oramai si era affrancato dalla maniera di Fra Filippo.
Siamo tra il 1469 e il 1473. Tra la morte del Lippi e l’esecuzione del « San Bastiano » del Botticelli per S. Maria Maggiore.
A questo periodo di nuove forme e di nuovi indirizzi artistici, al quale devesi, per certo la Trinità del Baldovinetti (1470-1472), incertamente il Battesimo di Cristo del Verrocchio (1470?) e l’Annunziata (1473) ora al Louvre, indicata come una delle prime probabili opere di Cosimo Rosselli; a questo momento e a questo movimento, che precede la tav. per l’Oratorio Pucci dovuta ai Pollaiolo e la prima affermazione di Domenico del Ghirlandaio a S. Gimignano, appartiene il S. Sebastiano del Botticini.
È tanto quanto basta, e a proposito del « periodo primo » della sua attività pittorica che si volle derivare — come vedemmo — da Neri di Bicci, dal Rosselli e dal Verrocchio, e a proposito de’ vecchi studi e delle numerose attribuzioni e degli affrettati giudizi su Francesco di Giovanni, per ricominciare da capo. Anche perché non appaia oltre giustificata l’ironia di Jacques Mesnil — e anch’egli non fu senza pecca — contro l’eccessivo fantasticare dei più, sul Botticini e la sua vita e la sua arte: « Il serait temps que quelqu’un de bien informé et de dénué de préjugés d’école vînt nous délivrer enfin de ce peintre-fantôme auquel on attribue aujord’hui tout ce qu’ on ne sait attribuer à personne de connu ».
PELEO BACCI